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Nota introduttiva a "Il Gesuita" di Nicola Chiaromonte

cfr. il testo originale de "Il Gesuita"

Il Gesuita1 è un racconto, è un saggio, è una lettera, è una confessione, è tutte queste cose insieme e molte altre, come il suo autore Nicola Chiaromonte (1905-1972) che è stato un saggista, un militante antifascista, un allievo di Andrea Caffi, un volontario in Spagna con André Malraux, l’amico di Mary McCarty, di Hannah Arendt e di Albert Camus; ed è stato, inoltre, tra gli animatori di politics, la rivista americana di Dwight Macdonald e di Tempo presente con Ignazio Silone; insomma, un intellettuale eretico e per dirla con una suggestione camusiana, uno straniero che ha tanto influenzato il dibattito culturale in Europa e in America almeno per un trentennio.

Nicola Chiaromonte ha scritto questo saggio nel 1947 per la “Partisan Review” al suo rientro in Italia dall’esilio americano e già nei primi passaggi, osservando le vicende italiane a ritroso e in prospettiva, lamenta che l’Italia non si è lasciata cambiare dalla storia e dai sommovimenti che l’hanno portata dalla caduta del fascismo al 1945; egli ricorda di aver lasciato l’Italia nel 1934, «per non tornarvi che nel 1947» e stupefatto prende atto che «no, l’Italia non è cambiata. I ricchi sono diventati più ricchi; i poveri più poveri[…]L’autorità fascista e la struttura fascista dello stato non ci sono più. Ma, se la facciata è crollata, tutto quello che la facciata nascondeva continua ad esistere, in gran parte identico.[…]Tutto è in uno stato di sospensione: conservatorismo e bisogno di cambiare, abitudini autoritarie e impulsi libertari; nazionalismo e cosmopolitismo naturale agli italiani»2. «In Italia il realismo non è una novità: ha sempre voluto dire cinismo. E’ un uomo forte al potere»3. La normalità, il conformismo, l’abitudine ad essere governati in maniera autoritaria sono i tratti antropologici che immunizzano gli Italiani dalla storia e li proteggono dal cambiamento. «La Realpolitik vive per forza di cose, di abitudini di massa e di tradizioni ben salde, non di pensieri nuovi e di impulsi spontanei»4. Destinatario di questa lettera dall’Italia agli amici americani è la figura di padre Martelli, il fratello gesuita con cui l’Autore ha condiviso gli anni dell’adolescenza e della giovinezza. Poi improvvisamente le strade si dividono.

«Cominciò il noviziato. Non lo vidi per tre anni, e quando riemerse dalla reclusione aveva subito uno sconcertante mutamento»5. Chiaromonte vede un’altra persona: «…ogni suo atto, ogni gesto rivelava premeditazione. Come il suo essere più intimo fosse stato sottoposto a un processo di chirurgia plastica sorprendente»6. La regola gesuitica, assai prima del partito politico o dello Stato - osserva con grande acume Chiaromonte - mima un ferreo sistema di tipo totalitario «perché nessun’altra organizzazione si prende la briga di lavorare tanto a fondo su un individuo»7. L’elemento gesuitico si rivela, quindi, come un perfetto modello organizzativo in grado di fabbricare un tipo di individuo integrato e funzionale all’ordine costituito. Sin dal Seicento fino al fascismo e oltre nel cinquantennio democristiano, la Chiesa è sempre stata il luogo di «ogni tradizione e di ogni prudenza»8, si è sempre imposta come l’unica Istituzione, da cui «da cui gli Italiani sono inesorabilmente condannati a sentirsi protetti»9 e come lo strato costitutivo della storia antropologica degli italiani. Per la Chiesa cattolica saper durare è sempre stata prova di astuzia, di cinismo e di prudenza, e dentro questa ambiguità plurisecolare si è modellato il carattere degli italiani oscillante tra immobilismo e cambiamento, paternalismo autoritario e anarchismo. Ecco l’anomalia italiana studiata da Machiavelli fino a Leopardi da cui si possono trarre gli aspetti deteriori della tradizione cattolica, del gesuitismo dilagante in molti strati della società, la pesante continuità tra l’Italia fascista e l’Italia democristiana. Gli italiani sono rimasti conformisti, cinici, indifferenti a qualsiasi distinzione netta fra apparenza e realtà, ma soprattutto sprezzanti della verità. I guai dell’Italia le derivano dall’aver mancato molti appuntamenti (la Riforma, l’illuminismo, la rivoluzione) e l’essersi affidata alla Chiesa come «un legame che non si può spezzare, perché non ci si può liberare dalle proprie memorie»10. Così si esprime padre Martelli (metà amico d’infanzia, metà fratello) che rileva come qui in Italia cristiano sia sinonimo di uomo e «la Chiesa è in sostanza per noi italiani come la famiglia o il paese»11.

Per chi voglia accostarsi al pensiero di Chiaromonte, questo saggio è ineludibile e va letto come l’esito di un percorso esistenziale ed intellettuale del suo Autore: infatti, Il Gesuita chiude la serie di capitoli saggistici (Lettera di un giovane dall’Italia, Sul fascismo, Spagna - la guerra, Italiani dispersi, Dalle carceri italiane) della Parte prima del volume Il Tarlo della coscienza che sarà pubblicato postumo solo nel 1992. Non c’è forse diagnosi più drastica, a partire da questi ritagli saggistici nel sentire la catastrofe dell’idea risorgimentale di stato e delle sue mediazioni sociali e della sua tensione verso traguardi collettivi fino all’esito naturale del fascismo, fino all’esito di una storia che si va impaludando.

E che cosa è stato il fascismo se non lo strumento del potere clericale e del machiavellismo italico, capace di accettare «senza imbarazzo persone di tutte le correnti» purchè esse avessero rinunciate ad averne una propria. Lucide e profetiche le ultime parole di padre Martelli prima del congedo: «…Se per dittatura intendi un governo di emergenza, ti posso dire solo che la situazione attuale è di fatto una situazione di gravissima emergenza. Non si può cominciare che da un atto di autorità»12.

 

Note con rimando automatico al testo

1 Nicola Chiaromonte, Il tarlo della coscienza, Il Mulino, Bologna 1992, pp.71-83.

2 Ivi, p.78.

3 Ivi.

4 Ivi, pp.78-79.

5 Ivi, p.72.

6 Ivi.

7 Ivi.

8 Ivi, p.80.

9 Ivi.

10 Ivi, p.74.

11 Ivi.

12 Ivi, p.83.