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Il Gesuita

 

 

 

 

(cfr. la nota introduttiva di Aldo Meccariello)

 

Eravamo stati compagni di scuola al Collegio Massimo, il famoso collegio gesuita in cui i figli della borghesia romana siedono negli stessi banchi, ma senza confondersi, con i rampolli dell’aristocrazia «nera». Avevamo organizzato insieme una prodezza collettiva consistita nell'accogliere 1'insegnante di francese al mormorio di «Scita!», sussurrato da trenta bocche, e avevamo anche pubblicato un giornaletto scolastico ciclostilato, iniziativa severamente proibita dai reverendi Padri. Avevamo giocato al calcio e fatto esplodere bombe caserecce nello stesso spiazzo. Eravamo tutti e due fanatici di Pearl White, pronti a commettere per lei piccoli imbrogli e azioni disoneste, come venderei i libri di testo e rubare dal portafoglio paterno, pur di non mancare l'ultima puntata dei Misteri di New York. Ma sui quindici anni le nostre strade si divisero: Martelli si iscrisse alla Gioventù Cattolica e aderì al Partito Popolare (la versione prefascista della Democrazia Cristiana), mentre io ero per D'Annunzio e, per via di D'Annunzio, anche per Mussolini.

Nel frattempo io avevo inoltre smesso di credere in Dio e in particolare nella necessità di sottomettersi alla tortura della confessione settimanale. Martelli era invece rimasto un ragazzo molto religioso, e andava in ritiro ogni anno per seguire gli Esercizi Spirituali sotto la direzione di un vecchissimo Padre, ben noto in tutta la Roma cattolica come grande specialista di questo genere di devozione. Di conseguenza, Martelli e io rinunciammo alla nostra intimità e di fatto ognuno di noi cominciò ad avere amici suoi. Ma le dispute ideologiche mantennero fra noi un forte legame, specialmente da quando tutti e due dalla politica ci eravamo buttati sulla teologia. Da una parte S. Tommaso, dall'altra Nietzsche (o meglio: Zarathustra), e Nietzsche riportò più di una sconfitta logica; inoltre, Martelli mi batteva regolarmente agli scacchi. Ormai non eravamo neanche più amici, e se continuavo a vederlo era solo per saggiare qualche nuova idea o ragionamento contro la sua abile difesa della tradizione. A volte, interrompeva di punto in bianco la discussione e, guardandomi dritto negli occhi, annunciava che stava pregando per me. Ed io, che potevo rispondere se non «Grazie»? Allora, aveva diciassette anni, Martelli mi annunciò che voleva farsi gesuita e l'anno dopo cominciò il suo noviziato.

Non lo vidi per tre anni, e quando riemerse dalla reclusione, aveva subìto uno sconcertante mutamento. In lui, semplicemente, non c'era più nulla di spontaneo; ogni suo atto, ogni gesto rivelava premeditazione. Come se il suo essere più intimo fosse stato sottoposto a un processo di chirurgia plastica sorprendentemente completa. «Come un cadavere, come il bastone nelle mani di un cieco»: la meta crudamente proposta da Ignazio nel capitolo De Oboedientia era stata raggiunta anche in lui. L'adolescente, il giovane, l'essere umano difettivo era stato corretto, raddrizzato, calato in uno stampo prestabilito, trasformato in un docile strumento spirituale. Del Martelli che avevo conosciuto io, non restava che il guscio, e neanche quello, poiché persino l'aspetto e i gesti erano cambiati. Nessun'altra organizzazione, mi venne fatto di pensare, poteva ottenere tanto da un essere umano, semplicemente perché nessun' altra organizzazione si prende la briga di lavorare tanto a fondo su un individuo. Certo non un partito politico, e neppure lo Stato, per totalitario che sia. il condizionamento della gioventù da parte del regime fascista faceva davvero ridere di fronte a un simile risultato.

Scoprii di non essere più in grado di comunicare col mio vecchio compagno di giochi; riuscivo a parlargli solo in termini vaghi e distanti, oppure trattandolo da emissario di un potere malefico, la Chiesa, e andando in collera. Le poche volte che ci incontravamo, non sapevo far altro che attaccarlo polemicamente sulla prostituzione della Chiesa al fascismo. Mi rispondeva che era un errore giudicare la Chiesa su fatti tanto secondari e che, comunque, seppure alcune delle cose che dicevo lo rattristassero, non poteva far a meno di rallegrarsi che la politica della Chiesa mi appassionasse tanto: questa non era indifferenza, no? Quanto al fascismo, non piaceva neanche a lui, ma se la Chiesa poteva avvicinarsi ai suoi fini grazie alla megalomania di Mussolini, questo bastava a consolarlo di qualche aspetto negativo della situazione. La realtà era che lui, in quanto gesuita, non poteva più lasciarsi prendere dai fatti correnti: la vera battaglia, l'unica che potesse appassionarlo, si combatteva su un altro piano. A questo punto Martelli si metteva a parlare dell'uomo moderno che si allontana dalla Chiesa, e delle dottrine che ne sono responsabili. Al che io, profondamente annoiato, mi sentivo incapace di discutere: l'argomento era un po' troppo stantìo e assurdo.

Una volta avevo cercato di tagliar corto, ricordando al mio avversario la frase di Flaubert, del 1850: «La nostra anima è un libro chiuso per il clero». Il che, aggiunsi, era stato vero anche prima del 1850, ed era un fatto irreparabile, anche ammettendo di non sapere quali conseguenze ne sarebbero nate alla fine. «Questo io lo chiamo andare alla deriva», ribatté Padre Martelli, «tu la chiami libertà, immagino. Per me, questo tipo di libertà, come ti direbbe Platone, richiama il suo contrario, la tirannide. Quando non c'è ordine spirituale, si finisce con qualche stato di polizia, dato che la società deve pur essere tenuta insieme. L'individuo può credere che seguire il proprio impulso con buone intenzioni sia una regola di condotta sufficiente. Ma la società è dogmatica per sua natura. Inoltre, per parlare del solo popolo che conosco, gli italiani, non mi sembra che le loro anime siano proprio un libro chiuso per noi reti. Può sembrare vero nelle città, perché tanto nelle città nessuno sa bene cosa succede. Ma ti assicuro che, in città come altrove, la gente viene ancora da noi, e non solo per sentire la Messa, ma per parlare della propria anima e del proprio corpo. Non quanti ne potremmo desiderare, d'accordo, ma comunque in buon numero. Saremo anche dei cattivi lettori di anime, ma ci occupiamo di problemi della vita della gente a cui nessun altro sembra badare. Non ci sono sostituti per il parroco. Non che per la religione oggi vada tutto bene. Eppure quasi nessuno rifiuta di far battezzare i propri figli, e neanche rinuncia al funerale in Chiesa. Questo non ci basta, certo, ma dimostra se non altro che gli italiani sono ancora cattolici. Noi rifiutiamo l'idea che l'osservanza dei riti indichi soltanto un vago attaccamento alla tradizione, così come l'altra che, se la gente non sempre segue la Chiesa in politica, voglia dire necessariamente che se ne è allontanata. Fino a che continueranno a venire da noi per sposarsi, per far battezzare i propri figli e raccomandare i propri morti a Dio, mi sembra che in dubbio sia messa la vostra convinzione, non la nostra fede. In altri paesi il cattolicesimo potrà essere più combattivo o intellettualmente più raffinato, ma proprio qui in Italia è più concreto e penetra più a fondo nella vita sociale. E qui in Italia che cristiano è sinonimo di uomo. La Chiesa è in sostanza per noi italiani come la famiglia, o il paese: non è un'idea, ma un legame che non si può spezzare, perché non ci si può liberare delle proprie memorie. Voi intellettuali avete preso il vezzo di condannare per questo la vostra stessa gente, e dite che l'Italia è uno sciagurato paese perché non ha avuto una riforma religiosa, o una rivoluzione sociale. Per conto mio, io ammiro invece l'operato di Dio in Italia: quanto durevole e felice sia stato nell'insieme il cattolicesimo cristiano nel suo sforzo di incivilire gli italiani, cioè di domare in loro la bestia. Se, come dici tanto spesso, il fascismo sta portando l'Italia alla rovina, ebbene, io sono sicuro che, nell'ora della prova, tra l'Italia e la rovina si ergerà la Chiesa».

Imparai presto ad ascoltare Padre Martelli senza discutere, solo per tenermi informato sulla mentalità e la logica cattolica, proprio come avrei potuto leggere la rivista mensile dei gesuiti, «Civiltà Cattolica», o l' «Osservatore Romano». Fuori d'Italia, gli intellettuali tendono a credere che la scienza, la filosofia e là civiltà moderna li autorizzi a disfarsi una volta per sempre del problema cattolico. In Italia, l'ambiguità cattolica è una realtà costante. Né una logica serrata né un forte potere politico sembrano in grado di combatterla. Appena sotto la crosta del neo-hegelismo di Croce si scopre la casistica cattolica, e il mondo dell' aldilà, anche se non più popolato da angeli e demoni, è sempre una causa efficiente del quotidiano modo di agire, e spiega molta dell'inerzia della vita italiana, come anche molto della sua umanità e gentilezza. Quanto alla politica in Italia, lo Stato liberale ha totalmente fallito nel tentativo di fondare su basi che avessero un minimo di coerenza intellettuale e giuridica il principio, chiaro in teoria, della separazione tra Chiesa e Stato. il fascismo ne prese atto. Ma, cosa ancora più significativa delle concessioni fasciste al Vaticano, l'ateo Mussolini, appena fu al potere, si trovò a fianco un consigliere spirituale nella persona di Padre Tacchi Venturi, S.]. la «Eminenza Nera».

Di fronte a tutto questo, l'italiano non cattolico è fortemente tentato ad assumere una visione moderatamente scettica e realistica delle umane cose. Ma lo scetticismo realistico, soprattutto di tipo moderato, è una componente essenziale della mentalità cattolica italiana. Di conseguenza, poiché il lassismo morale e logico sembra essere la caratteristica del cattolicesimo in Italia, rigore moralistico e settarismo possono sembrare più efficaci e pertinenti. Senonché, rigore e settarismo esigono comunque un dogma, e come può .un dogma, in Italia, essere veramente anticattolico? Quando. come me, si è avuta un'educazione cattolica, si è molto sensibili a questo tipo di problemi, e la difficoltà di risolverli finisce con l'essere di per sé affascinante. Per questo andavo a chiacchierare con Martelli, e mi sottoponevo a esercizi apparentemente poco proficui come leggere le pubblicazioni cattoliche e analizzare minuziosamente le encicliche papali. In un certo senso, io stavo ancora cercando la mossa politica o intellettuale che avrebbe posto fine alla complessa partita, che si giocava tra gli italiani e il cattolicesimo, con uno scacco matto indiscutibile.

Lasciai l'Italia nel 1934, per non tornarvi che nel 1947. Nel frattempo continuai a ricevere regolarmente notizie dal mio amico gesuita, a Natale e a Pasqua, sotto forma di auguri, preghiere e inviti alla preghiera. Non riuscii in cambio a resistere alla tentazione di mandargli una cartolina da Madrid nell'agosto del 1936. Della storia personale di Martelli, seppi solo che l'Ordine lo aveva destinato ad essere parroco piuttosto che insegnante, studioso o pubblicista. Considerai questo un segno che certe qualità personali, da me notate e apprezzate in lui, prima fra tutte un sincero spirito evangelico, il desiderio di servire e di aiutare davvero gli altri (se non avesse deciso di farsi prete, pensavo, sarebbe diventato comunista), erano rimaste dominanti nel suo carattere. Durante la guerra, immaginavo Padre Martelli intento a soccorrere i poveri, a organizzare assistenza, con uno di quegli esempi di abnegazione che lasciano ammirati e sono di fatto ciò che mantiene in vita la Chiesa, rinviando di continuo il redde rationem che altrimenti le toccherebbe, come tocca ad altre istituzioni mondane quando puntano sul cavallo perdente (e il Vaticano aveva senza dubbio puntato sul fascismo con una certa insistenza).

Di ritorno a Roma, comunque, la prima notizia che ebbi di Padre Martelli fu che era diventato un esponente importante della nuova corrente che andava sotto il nome di «neofascismo». Un mio amico lo aveva sentito predicare una domenica. il soggetto della predica era la parabola dei servi vigilanti con quel che segue: come Gesù sia venuto sulla terra a portare fuoco e discordia, non pace (Luca 12: 35-43). Ma l'oratore aveva parlato soprattutto dell' «autorità», e il mio amico confessava di essere stato letteralmente atterrito dalla sua estatica veemenza. La tesi era che l'autorità è la suprema manifestazione della volontà di Dio sulla terra: nella vita interiore come nelle vicende pubbliche, la Verità Divina si rivela all'uomo essenzialmente sotto forma di comando imperioso; dove non c'è autorità, non c'è verità; di qui il dovere dei cattolici nella situazione attuale di pregare e di concorrere alla restaurazione dell' autorità, che era stata minata insieme alla vita morale e economica della nazione.

Invece di essere sorpreso dalla notizia, rimasi colpito dal pensiero che un simile appello dovesse suonare solenne e attraente nell'Italia del marzo 1947. Anche quando lo sopportano, gli italiani in fondo disprezzano il prete che scende a patti con l'autorità costituita: lo considerano superfluo e insincero. Ma un prete che abbia l'aria di andare contro corrente, e di essere libero dalle schiavitù temporali, apparirà apocalittico e troverà di certo un pubblico. Il limite nel caso di Padre Martelli era il fatto che la sua parrocchia fosse in un quartiere borghese: i gesuiti non ministrano la plebe.) E inoltre accadeva che la libertà, dagli italiani appena riconquistata, e pur goduta da tutti, compresi fascisti e comunisti, era generalmente considerata precaria o provvisoria. In più, mentre la parola «autorità», e i suoi derivati, era ufficialmente tabù, e il fatto «autorità» praticamente inesistente quanto a prestigio del governo, il problema «autorità» stava sospeso sulla mente di tutti, né trovava, nel migliore dei casi, precisa risposta.

Quel che colpisce dell'Italia dopo il fascismo è quanto poco 1'Italia sia cambiata. Per essere esatti, gli italiani hanno rifiutato di lasciarsi cambiare dagli eventi. Si sono rifiutati di diventare amari, cupi o gretti. Hanno mantenuto le apparenze previste da una delle fondamentali leggi non scritte del comportamento nazionale, una legge basata sulla generale indifferenza per ogni distinzione netta fra apparenza e realtà. Da parte degli italiani, in questo loro mantenere le apparenze, non c'è niente di stoico, al contrario. Esprime una certa naturalezza, una certa riluttanza a reprimere le consuete abitudini e gli incentivi umani. Non vi è emergenza per cui sia lecito perdere di vista i valori della vita quotidiana. Quando si giunge a questo, va davvero male. I tedeschi, i bombardamenti, erano già un brutto affare. Ma erano eccezioni. La regola: non si perde mai di vista la vita normale con le sue componenti normali, dal far soldi al fantasticare, né d'altronde lo si potrebbe, tanto sembra tutt'uno con la stessa natura. (Infatti, per la mente dell'italiano, la guerra e le altre catastrofi provocate dall'uomo non nascono tanto dal mondo umano quanto dal regno della natura: è naturale che, di tanto in tanto, l'uomo perda il controllo degli eventi.)

Gli scontri armati erano appena finiti nell'Italia centrale che vecchi e giovani si misero al lavoro, recuperando autocarri sfasciati, pneumatici, viti e chiodi, qualsiasi cosa sembrasse vagamente riutilizzabile. Nelle ultime settimane dell'assedio di Roma, mentre la città moriva letteralmente di fame, nei quartieri poveri la gente era febbrilmente intenta a riparare e a improvvisare ogni sorta di bizzarri congegni per il previsto fiorire del mercato nero: mancavano solo gli aiuti americani per completare l'opera. Uno dei capi della Resistenza nel nord racconta nelle sue memorie, quasi incidentalmente, di essersi assentato per qualche giorno dal fronte di lotta per andare a Trieste a recuperare la famiglia e riportarla a Milano, dove aveva trovato casa: gli appartamenti liberi erano spaventosamente scarsi. La vita di famiglia gode certamente in Italia del diritto di priorità. Nello stesso libro, il lettore è informato che a un certo punto il comandante in capo della Resistenza, Parri in persona, aveva cupamente annunciato alla riunione del Cln che, nel caso sua moglie fosse stata arrestata, lui si sarebbe arreso ai tedeschi. Così, da quel momento, il destino della Resistenza dipese, tra l'altro, dalla famiglia Parri. La decisione, Parri aveva aggiunto, era il risultato di un' angosciosa lotta morale. Cosa certamente vera, ma significava anche che, in Italia, neppure le condizioni create dai nazisti potevano persuadere un uomo, che aveva per altro accettato la loro sfida, a impegnarsi senza riserve. In Italia non c'è posto per gli imperativi categorici.

Mentre fa una data cosa, un italiano ne tiene sempre d'occhio un' altra: a volte un sentimento, a volte un sogno, spesso un interesse puramente personale. Questo fa dire agli altri che gli italiani sono realisti. E non vi è dubbio che gli italiani siano gente pratica, anche se non precisamente pragmatica o dedita all' efficienza. Ma sono realisti anche in un altro senso, ancora più esasperante. Il loro modo di vedere può essere disperatamente trito, ancorato non tanto ai fatti quanto ai particolari e ai particolari dei particolari. Si occupano infinitamente del mondo tangibile. Non bisogna dimenticare il senso in cui Leonardo o Galileo possono essere chiamati realisti, e che pure è italiano. In ogni caso, il più solitario degli italiani è certamente l' «idealista», colui che è posseduto e trascinato da un’idea, e ne accetta le conseguenze perché vuole un vero «cambiamento».

No, l’Italia non è cambiata. I ricchi sono diventati più ricchi; i poveri più poveri. La legge spietata che considera naturale che chi sta più in basso sia miserabile e buono, chi sta in alto soddisfatto e malvagio, continua a dominare la vita italiana. Con la caduta del fascismo, solo il fascismo è stato respinto. L'autorità fascista e la struttura fascista dello stato non ci sono più. Ma, se la facciata è crollata, tutto quello che la facciata nascondeva continua a esistere, in gran parte identico. Se non che tutto prende l'aspetto di una serie di frammenti di una società in frantumi. Tutto è in uno stato di sospensione: conservatorismo e bisogno di cambiare, abitudini autoritarie e impulsi libertari; nazionalismo e cosmopolitismo naturale agli italiani. La libertà politica, quella che esiste oggi in Italia, è uno stato di sospensione. Eppure, fa già una grossa differenza. il semplice fatto della libertà di parola ha dato al paese un' animazione che sembra una nuova vita. La sventura ha fatto sentire gli italiani uniti come non si erano mai sentiti prima. Il paese non è affatto inerte. Senonché, l'apparente immobilismo della società italiana scoraggia chiunque. Al livello generale della politica, tutto quello che era successo avrebbe potuto essere previsto con una dose minima di immaginazione: la forza dei comunisti, il ruolo dominante dei cattolici, l'inesistenza effettiva dei «liberali».. Di fatto, tutti quelli che, nella politica italiana, hanno tèntato di mettere in piedi qualche cosa di nuovo, sono miseramente falliti: gli intellettuali del Partito d'Azione, che pensavano di avere una nuova sintesi da offrire tra liberalismo e socialismo; e i demagoghi del Fronte dell'Uomo Qualunque, che 'avevano sperimentato uno strano miscuglio di vecchi atteggiamenti e di toni parlati.

Vero è che la guerra e l'occupazione straniera hanno lasciato agli italiani un numero limitato, e in un certo senso precostituito, di scelte. Ancor più vero che l'Italia, come tutta l'Europa, è stata scrollata fino a toccare il fondo di una dura realtà. Contro la dura realtà, si sa, le formule astute non funzionano, anche se, per strane ragioni, si ha l'impressione che gli schemi tradizionali, o gli interessi acquisiti, possano servire. La nuova scuola realistica trionfa. Senonché, in Italia il realismo non è una novità: ha sempre voluto dire cinismo. È un uomo forte al potere.

La verità a proposito del realismo politico odierno è che esso trasforma la vita politica in una questione di inerzia collettiva, non di cambiamento. La Realpolitik vive per forza di cose, di abitudini di massa e di tradizioni ben salde, non di pensieri nuovi e di impulsi spontanei. Anzi, il suo sforzo deve essere continuamente leso a mobilitare le prime e a sopprimere i secondi. Deve costantemente accettare la logica del produttore cinematografico che sostiene che a fare i cattivi film è il pubblico, non lui. Per il fautore della Realpolitk, il modo in cui un problema nasce o esiste nella vita sociale non è mai la cosa più importante, essenziale è invece quello che c'era prima: gli interessi acquisiti, l'inerzia delle abitudini su cui si può sempre contare. La monarchia deve essere abolita, ma, per cominciare, dobbiamo metterei d'accordo coi monarchici; l'autogoverno è lo scopo finale, ma la tradizione burocratica è un fatto; dobbiamo quindi lasciar fare la burocrazia fino a nuovo ordine; vogliamo che il potere della Chiesa diminuisca, ma è essenziale che non ci alieniamo i fedeli, bisogna quindi concedere alla Chiesa quello che vuole adesso. In Italia, questi argomenti sono stati tutti usati dai comunisti prima o poi.

Ma il tipo di ragionamento che tali argomenti sottintendono, non è certo monopolio dei comunisti. Quando Togliatti rientrò da Mosca, nel 1944, per diventare un ministro del Re, portò con sé qualcosa di più di una tregua temporanea: egli riportava in Italia la regola aurea della politica italiana, che era stata scossa dagli eventi. La guerra, il governo alleato e la «guerra fredda» fecero il resto. Oggi la classe dominante italiana è perfettamente consapevole della necessità di essere «realisti». (Togliatti è universalmente considerato un genio politico. Fino a qualche tempo fa, era facile incontrare dei conservatori che ti dicevano che Togliatti sarebbe potuto diventare «un secondo Giolitti», un ammirevole statista liberal-conservatore, se solo lo avesse voluto. Guarda caso, era proprio quello che Togliatti voleva credessero di lui.)

Il risultato è questo: se si esclude l'avventura dei comunisti al potere, agli italiani, dopo un disastro che ha completamente sconvolto i dati dei loro problemi nazionali, viene indicata dai loro capi una sola via chiara, quella che li riporta ai modi tradizionali della loro società. La tradizione più recente è, naturalmente, il fascismo. Per fare la stessa cosa c'è un modo solo, e perché poi darsi da fare per inventare metodi nuovi? A parte questo, nessuno sembra sapere con esattezza come evitare di ricadere nei presupposti fondamentali del fascismo: autorità, corporativismo di Stato, e nazionalismo per cementare il tutto. Pochissimi sono fascisti, naturalmente, e tutti predicano soprattutto la prudenza: i pericoli sono troppi.

E quale istituzione può dare in Italia migliori garanzie di prudenza che la Chiesa, il luogo di ogni tradizione e di ogni prudenza? Se l'Italia dovesse scegliere la strada dell' autoritarismo, la Chiesa ne allevierà la durezza, come ha fatto sotto il fascismo. Se vincerà la democrazia, la Chiesa farà in modo che sia accompagnata da una giusta dose di autorità. In Italia, la Chiesa non offre tanto il paradiso, quanto una protezione dall'urto puro e semplice con la storia. E recentemente ha svolto un' azione efficacissima di intermediaria fra la nazione sconfitta e i grandi di questo mondo. Dalla Chiesa, gli italiani sono inesorabilmente condannati a sentirsi protetti.

Almeno da questo punto di vista, Padre Martelli aveva avuto, ragione. Andai a trovarlo nella sua chiesa. E una chiesa orribile, costruita in una specie di stile fra il romanico e l'aerodinamico, che è l'equivalente religioso della cupa vacuità dell' architettura ufficiale fascista: un parallelepipedo di mattoni messo lì per il lungo e fiancheggiato da un altro parallelepipedo dello stesso materiale, ma questo in altezza, per rappresentare il campanile. Il cuore maligno del miscredente non può che rallegrarsi di un simile prodigio di ipocrisia strutturale. L'ufficio di Martelli invece era una semplice stanza imbiancata, quasi vuota, con tutti i segni dell' esemplare parsimonia gesuitica. Vi regnava la stessa implacabile desolazione che ricordavo dal collegio. Martelli non aveva certo fatto sforzi per far sentire a proprio agio, Il, i suoi parrocchiani borghesi.

Di tutto quello che avevo immaginato di lui da lontano, una cosa era vera. Si era infatti visibilmente logorato di lavoro. A prima vista sembrava in buona salute e pieno di forza. Ma per camminare doveva aiutarsi con un bastone e avanzava a passi lenti e pesanti, come se dovesse reprimere un dolore segreto o fare un terribile sforzo ad ogni passo. Anche a parlare, faceva fatica. La tonaca lustra era rammendata in più punti. Portava scarponi pesanti, logori ma ben lucidati. Quando arrivai, stava contando dei soldi, ordinandoli a mazzetti in un cestino. «Le offerte», mi disse. «Non sono molte».

Tra le prime cose, mi disse che avrebbe voluto saperne di più sulla democrazia americana. La situazione non gli era del tutto chiara. Gli avevano detto che per gli americani la democrazia è tutto sommato basata sull' educazione. Ma quale era la base dell'educazione, allora? Come poteva esistere un' educazione che non facesse ricorso ad una verità suprema, tale da accomunare insegnante, allievo e la società in cui vivono? «Non so per l'America», continuò. «Ma per quel che riguarda la democrazia che dovremmo avere qui, lo so bene. E un'impostura: è la storia che bisogna raccontare per avere successo. E la massima delle imposture è la Democrazia Cristiana, una contraddizione in termini. All' altro estremo ci sono i comunisti. I comunisti hanno i loro scopi anticristiani; ma hanno il concetto di autorità. E normale che sfruttino la confusione, per i loro fini malvagi, ma non si può dire che mentano. E la loro fede stessa a essere un'impostura, l'Errore del nostro tempo. Gli altri partiti invece fanno pena. Per la maggior parte, l'impostura che chiamano' "democrazia" è solo un modo di tirare avanti. Nella confusione, verso una confusione più grande. Sommerso dall'impostura, questo povero paese è come "nave senza nocchiero in gran tempesta"».

Gli dissi che la sua amarezza mi sorprendeva. Mi sarei aspettato che un cattolico in Italia si sentisse pieno di speranza. La Chiesa non era mai stata negli ultimi ottant'anni così politicamente e economicamente forte. E la Democrazia Cristiana, dopotutto, poteva essere un valido espediente. Perché opporsi sul piano della logica?

Sorrise stancamente: «Diplomazia. Già, lo so. Il guaio è che non basta. La diplomazia può essere necessaria nelle alte sfere, ma non puoi dare risposte diplomatiche alla gente che viene da te per consiglio o conforto. Devi esporti e aprirgli il tuo cuore. La gente è scorata. Trova sempre più difficile essere cristiana in una società che è ogni giorno meno cristiana. Questa gente è in preda all' ansia politica e economica. Vogliono sapere cosa fare adesso. Solo se rispondi in modo chiaro, puoi conservare la loro fiducia».

«E tu, qual è la tua risposta?» gli chiesi.

«Ti devono aver detto che sono un fascista», disse con un risolino infantile. «Ovviamente, non lo sono. Sono un gesuita. In più, l'unica restaurazione che mi sta a cuore è quella della società in Cristo. Ma, se vogliamo essere seri e non limitarci a gridare al lupo dopo che il lupo è morto, come si tende a fare oggi, dobbiamo riconoscere che il fascismo, per il fatto di aver capito che il problema sociale è prima di tutto un problema di autorità, e che non ci può essere autorità senza cattolicesimo, ha rappresentato un passo avanti nel senso giusto, e un passo importante, anche. Purtroppo, come la maggior parte degli italiani, Mussolini era un dilettante. Credeva fosse possibile per un uomo politico del nostro tempo essere cattolico solo fino a un certo punto. In questo non era migliore di molti uomini politici di sinistra. L’Italia sta pagando per il suo errore. Ma. di fatto, se il fascismo e stato sconfitto, nessuno ha ancora provato che avesse torto. Ce ne siamo resi conto non appena siamo stati conquistati. Se fossi un cardinale sarei prudente. Ma sono un parroco, e cosa posso dire, in coscienza, alla gente che viene da ime per consiglio, se non che il principio che stava dando alla nazione italiana un vero assetto cattolico, deve essere portato avanti? L'unico conforto è che le giovani generazioni sembrano consapevoli di questo dovere».

Tutto ciò era detto con passione, come se fosse un credo assolutamente personale. Ma non lo era. Infatti, un altro gesuita, Padre Lombardi, l'oratore più popolare in Italia dopo Togliatti, diceva più o meno le stesse cose sulle pubbliche piazze e alla radio. Andava in onda con queste parole: «Gesù è al microfono. Gesù vuole parlarti. Ascolta Gesù». (La copertina del volume in cui furono raccolti i suoi discorsi radio fonici porta una riproduzione della testa di Cristo dalla Trasfigurazione di Raffaello con l'aggiunta sulla destra di un microfono accuratamente tratteggiato). Quanto al messaggio politico di Padre Lombardi, era estremamente chiaro. Cercava di confortare gli italiani demoralizzati, ricordando loro che «una vita riorganizzata su basi nuove poteva essere migliore di quella a cui erano stati costretti a rinunciare». L'Italia, diceva, era ancora in possesso della più grande delle ricchezze, Roma e il Papa. Le più grandi glorie d'Italia sono state tutte cristiane e cattoliche. La nazione può rinascere malgrado il «vergognoso trattato di pace» impostole dalla «viltà dei conquistatori». L'Italia ha diritto alla restituzione delle colonie e, anche, a un nuovo esercito, i cui giovani militi «possano di nuovo intonare fiduciosamente i canti della Patria». Se gli italiani si tengono uniti alle loro «due madri, Patria e la Chiesa», non ci possono essere dubbi sul «trionfo finale». Nel suo discorso conclusivo, l'oratore sembrava turbato al dubbio che «il diavolo volesse scatenare una battaglia per impedire la rinascita dell'Italia in Cristo, e spargere nuovo sangue sulla nostra terra». «Questo sangue», il Padre rispondeva a se stesso in tono rassicurante, «se dovrà essere sparso, sarà condanna di chi avrà commesso il crimine. E da questo sangue l'Italia rinascerà più bella che mai».

Dissi a Martelli che le sue parole mi ricordavano la predicazione di Padre Lombardi. L'idea di fondo sembrava essere un cattolicesimo nazionale: o sbagliavo? «Ne capisco benissimo la logica», aggiunsi, «ma non vedo proprio come il vostro concetto di autorità possa essere messo in pratica. Se quello che hai in mente è una vera e propria teocrazia, lasciati dire che secondo me non ha la minima probabilità di riuscita. Ammesso pure che gli italiani siano all'ingrosso ancora cattolici, il loro cattolicesimo però è tale da escludere precisamente l'idea che la Chiesa possa diventare un potere assoluto. E spero non penserai a un nuovo tentativo di dittatura, vero?».

«Tu sei stato via troppo tempo», mi rispose. «Si direbbe che tu sia rimasto più ottimista di me. Pensi ancora in termini di alternative intellettuali. Ma, mio caro, non ci sono alternative. Volesse il cielo che la teocrazia, come la chiami tu, fosse oggi una scelta possibile. Vorrebbe dire che la società è rimasta fondamentalmente cristiana. L'armonia fra religione e politica sarebbe ancora la norma comunemente accettata, e la si potrebbe sempre raggiungere in qualche modo con un compromesso intelligente. Purtroppo, non siamo più nel tredicesimo secolo. Viviamo in un' epoca che è la negazione di ogni armonia. Se tu fossi prete, sapresti a qual punto la vita morale dell'individuo stia costantemente cedendo alla pressione del disordine sociale. Una restaurazione cristiana significa riconquista cristiana della società. C'è solo un problema: da dove cominciare? Se per dittatura intendi un governo di emergenza, ti posso dire solo che la situazione attuale è di fatto una situazione di gravissima emergenza. Non si può cominciare che da un atto di autorità».

Lo salutai e mi ritrovai nelle strade e nelle piazze di Roma: questa dimensione romana dello spazio, così generosa, priva di ogni costrizione, che non rifiuta nulla all'individuo, né gli chiede nulla, se non di mettersi una maschera, recitare una parte, e in essa dimenticarsi. Gli attori sono innumerevoli, la scena è data una volta per tutte. C'è posto per il Fanatico, e per il Cinico. Solo chi vuol essere se stesso ne resta escluso: l'eretico. O no?