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Che cosa significa pensare un presente?

L’apparenza del presente

In the long run we are all dead’. Questa ben nota – ed incontestabile – sentenza di Keynes viene spesso usata per incitare ad operare per il presente, magari fino ad un semplicistico carpe diem che sembra non cogliere la paradossale contraddizione: il vuoto di senso del presente di coloro che dicono che tanto, presto o tardi, saranno tutti morti. L’adesione al presente, alla sua diretta immediatezza, che come tale è solo semplice-presenza. Anche il Tao raccomandava di ‘nutrire la vita’, preservando la persona e giungendo alla fine dei propri anni. O, come disse Chuang-Tzu rifiutando potere ed onori, ‘meglio vivere e trascinare la coda nel fango’. Sublime saggezza dell’esistente; ma vivere del – e nel presente non è ancora pensare il presente come consapevole tema degno di riflessione.

Proviamo ora a fare un passo in un’altra prospettiva. Marx chiamava comunismo ‘il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti’. Qui l’accento, direzionandosi al futuro, sembra posizionarsi, al di là di ogni manierismo hegeliano, sul superamento del presente. Certo, il dinamismo del movimento rivoluzionario marxiano non ha la rigidità deterministica in cui poi si insabbierà la versione engelsiana, per cui il comunismo sarebbe la dottrina delle condizioni di liberazione del proletariato. Ma in ambedue i casi la relazione è chiara: il presente analizzato in vista della sua diacronica abolizione.

Che vi si aderisca consumandolo, o lo si superi progettando, il presente pare svanire, irriflesso in un caso, negato nell’altro. Ciò che vorrei quindi suggerire, in queste brevi note, è che lo statuto del presente, soprattutto nella contemporaneità, rende costitutiva la difficoltà di pensarlo, e dunque inevitabili i vicoli ciechi in cui a mio parere si chiudono le due precedenti direzioni. A meno di trovare una terza prospettiva, non riconducibile a determinazioni storicamente e politicamente canoniche.

 

Il presente che guarda al futuro

‘Non il più lontano, ma il più vicino è ancora il perfettamente oscuro’. Così Ernst Bloch nel Principio Speranza. Se il carpe diem, il godimento spensierato, il seduttore di Kierkegaard sfuggono all’autocomprensione; se l’enigma più difficile da cogliere è proprio il giorno, ‘l’Ora dell’existere’, si tratta, per comprendersi e comprenderlo, di rivolgersi invece al futuro, di fare fronte alla direzione. Il domani che nell’oggi vive, la realtà presente che è la realtà dell’orizzonte, la vera genesi situata alla fine. La Speranza in ciò che Bloch chiama patria, di far nascere qualcosa ‘che nell’infanzia riluce a tutti e dove ancora non è stato nessuno’.

Si tratta in fondo di quello stesso principio fenomenologico che, espresso con termini non utopici, emerge nel concetto dell’intenzionalità: la cosciente tematizzazione del presente si realizza solo in un tendere-verso che si apre sul futuro, il presente che non si sottrae perché guarda, consapevolmente, nella propria direzione – nella propria tensione. Tensione verso uno scopo, telos. La Lebenswelt non si estenua nella fruizione istantanea, quando diventa anima del progetto per il mondo a-venire.

 

E quale avvenire?

Ma proprio qui si inceppa il meccanismo dell’intenzionalità, e proprio qui trova radici la mia proiezione fortemente pessimistica, prima ancora che sul presente, sul futuro. C’è ancora un futuro verso cui tendere? E sopravvivono le grandi narrazioni attraverso cui pro-gettarsi? O ci stiamo solo indirizzando verso uno spettro? Il dubbio si è già da sempre insinuato nelle stesse correnti di pensiero che vorrebbero aderire al presente o salvarlo col futuro. Non è l'intera tradizione orientale che ci ricorda l'impermanenza di tutto ciò che costituisce la vita? e non è stato proprio Mao-tse-tung (in cui, detto per inciso, fortissima è l'influenza della cultura orientale ed in particolare del taoismo) ad affermare che tutto dovrà avere una fine, compreso lo stesso marxismo?

Ma la crisi del futuro emerge, in termini contingenti e più concreti, nelle riflessioni dei teorici della decrescita. Per Serge Latouche siamo ormai prossimi al punto di non-ritorno. La nostra sovra-crescita economica e la nostra impronta ecologica non più sostenibile rendono difficile pensare alla possibilità stessa del futuro, o meglio di un futuro in cui il processo distruttivo, entropico ed antropico, non finisca per minare le basi della stessa esistenza umana. E da ciò non ci possono salvare le fantasie tecnologiche e produttivistiche, sia nella versione capitalistica, che in quella marxista, ancora prigioniera dell’ambiguità con cui, criticando il capitalismo, accetta come produttiva ‘la crescita delle forze che esso scatena’.

Non so quanto sia fondato il recupero di ottimismo su cui Latouche fonda la sua speranza in una decrescita serena; ma, in ogni caso, l’accusa di utopismo che gli viene rivolta non pertanto restituisce valore alle grandi narrazioni dello sviluppo. Anzi, non fa altro che mettere a nudo il nostro vicolo cieco: se non ci salva la decrescita come ultima spiaggia (e potrebbe non riuscirci, perché irrealizzabile, perché arrivata tardi, perché applicata superficialmente, perché troppo debole rispetto all’inerzia e alla tremende forze ormai scatenate), non ci salva nulla. L’umanità apprendista stregone forse riuscirà, a prezzo di grandi limitazioni, a rimettere questo diavolo nella bottiglia. O altrimenti nessun modello di sviluppo ci salverà il futuro. Detto in maniera meno apocalittica, ma con non minore urgenza, la biodiversità, come afferma l’etologo Danilo Mainardi, è un patrimonio che si è andato costruendo nei tempi lunghissimi dell’evoluzione biologica e che, una volta distrutto, è perduto per sempre. L’umanità ha ereditato un capitale che, per ragioni sia etiche che di convenienza economica, dovrebbe saper conservare. Ma che al momento sta sprecando a piene mani, inconsapevolmente o, peggio, irresponsabilmente.

 

Presente impensabile

La crisi della progettabilità del futuro spalanca la crisi della pensabilità del presente. Io qui tenderei a capovolgere l’immagine di un presente proiettato sul futuro. È piuttosto il futuro che si proietta sul presente: vale a dire, solo progettando un futuro si può riflettere sul presente. Il presente è impensabile se non è pensabile il futuro. O se questo proietta su di noi solo un’ombra. Il presente arretra allora, ancora una volta, a semplice presenza, a nudo godimento dell’attimo, a ‘banalità ante rem’, come teme Bloch. All’unilateralità del prendere il questo, das diese nehmen, come diceva Hegel.

L’Angelus Novus di Benjamin, l’angelo della storia, avrebbe bensì il viso rivolto al passato, ma una tempesta dal paradiso, il progresso, lo spinge irresistibilmente nel futuro… E se questa tempesta smettesse di soffiare? o se si confermasse solo un ciclone autodistruttivo? L’angelo continuerebbe a vedere le catastrofi, passate e presenti, della storia, ma da dove le guarderebbe, e a partire da quale prospettiva potrebbe allontanarsene? D’altra parte il dubbio sul calendario messianico, sulla concretezza dell’escatologia è da sempre presente nella coscienza ebraica. Come dice Jankélévitch, la fine dei tempi è alla fine del tempo, cioè mai, essendo questo infinito. Per Jankélévitch non sarebbe dunque il compimento materialistico e quantitativo di un progetto a dare un fine alla storia: sarebbero i fini ideali, gli scopi ultimi, a rendere il futuro sempre presente. L’avvento del futuro nel presente. Sempre che un qualche futuro possa esserci; e che la speranza, i valori ideali normativi che noi ne riporteremmo nell’oggi (ma Jankélévitch parlava nel 1961, ricordando la liberazione dal nazismo), da qualche parte ancora soffino. E che non si rischi un platonismo delle buone intenzioni. Da quale futuro trarrebbero la forza? Se il futuro è impensabile, non c’è fine ideale pensabile – nel presente. Per parafrasare una celebre battuta di Woody Allen (‘perché devo preoccuparmi dei posteri? cosa hanno fatto i posteri per me?’) si potrebbe concludere che, se sino a ieri i posteri hanno fatto qualcosa per noi, dandoci la direzione ideale di cui parla Jankélévitch, ora non possono più fare nulla.

 

Il passato che può opprimere

Una precisazione: non vorrei comunicare la falsa impressione che si possa, come difesa del presente, e nella latitanza del futuro, prendere la direzione contraria. Cioè rinchiudersi in una santificazione, o una museificazione del passato. O peggio, prenderlo come paradigma. Nietzsche ammonisce: non si riproponga il passato per l’oggi, non è un monumento. E, come ricorda Adorno, un’etica anacronistica si impone sul presente con la violenza: quando l’ethos collettivo del passato vuole conservare nel presente un’apparenza di universalità. Il passato può essere oppressivo, nella misura in cui precostituisce, con criteri già dati e appunto passati, le norme della comprensione del presente. Se l’ethos rifiuta di divenire passato si impone, o cerca di imporsi, con la violenza. Sono tutte le modalità conservatrici che tentano, con le più svariate, e ben note, modalità autoritarie, di riproporre un ethos collettivo in nome di una presunta universalità che ormai è sfumata.

 

La rappresentabilità

Cosa significa rappresentare? Dalla sua radice etimologica, presentare di nuovo, rendere presente un qualcosa che altrimenti sarebbe assente. La rappresentazione potrebbe così sembrare una via di scampo per tematizzare il presente, senza progettarsi nel futuro. Ripetere il presente nello spettacolo, nella comunicazione, nel rispecchiamento del realismo. Ma si tratterebbe di semplice ripetizione del già passato: il presente che vorremmo riprodurre è ormai accaduto, lo rappresentiamo a partire da un tempo che, seppur un istante fa, è già stato. La prospettiva di immobilizzare un presente puro è un’illusione impossibile. Impossibile, perché, come nota Derrida nelle sue riflessioni su Artaud, il presente non è mai ripetibile, come non è ripetibile il già stato. Artaud, e, sulla sua scia, Derrida mandano con ciò in crisi il progetto di rappresentazione teatrale: il teatro si offre una volta sola, lo spettacolo è un’esperienza unica ed irripetibile, che non ha riferimenti diacronici e non ha progenitori. Non rappresenta, non ri-presenta. Ma, in un’ottica più vasta, va in crisi anche il modello di rappresentanza politica. Non si può sostituire o rappresentare la volontà di altri, né presentarsi al posto di qualcuno in una assemblea delegata, come già sapeva Rousseau. La rappresentazione è supplenza, è delega. Come nota Derrida, è del rappresentante in generale che diffida Rousseau, legando la critica allo spettacolo classico alla critica della rappresentazione sociale. Se nel Contratto sociale contrappone alla delega politica la partecipazione diretta, l’assemblea autosufficiente della comunità, nella Lettera a D’Alambert vorrebbe sostituire, alle rappresentazioni teatrali come spettacoli da vedere, delle feste pubbliche, nelle quali gli spettatori diventano attori: ‘fate degli spettatori uno spettacolo’.

Non c’è dunque nulla di rappresentabile. O, più positivamente, anziché rappresentare un presente (passato), si rappresenta nulla, perché, come dice Paul Valéry, la poesia è ‘il lavoro che fa vivere in noi ciò che non esiste’.

 

L’autobiografia

È certamente plausibile ipotizzare che il raccontarsi, cioè il dare conto di come, nel corso del tempo, si è costituito un soggetto, possa essere un modo di tematizzare il presente, che si sottragga alla ripetitività impossibile e all’abisso in cui sprofonda il nostro sguardo sul futuro. Ma anche il ricorso alla narrazione di sé, come costitutiva della propria storia e del proprio soggetto presente, può andare incontro allo stesso rischio di sudditanza nei confronti del passato: la mia storia arriva sempre in ritardo, sottolinea Judith Butler, ‘sempre in medias res, quando molte cose sono già dovute accadere per rendere me e la mia storia possibili nel linguaggio’. Questo perché la narrazione non è mai pura descrizione; perché le condizioni stesse della narratività ci precedono, e precedono quel linguaggio nel quale l’io cerca di narrarsi. Una nostra storia ‘arcaica’ e primitiva è irrecuperabile. Come neonati, o meglio infanti (senza parola) entriamo in un ambiente già comunicativo che ci insegna – e ci impone – come narrarci. L’io narrante non può dunque rendere conto, in maniera completa e conchiusa, di come è divenuto tale. Racconta soltanto un dopo. La preistoria del soggetto ci sfugge, perché precede, e costituisce, con le sue determinazioni, la possibilità stessa di raccontarsi come io. La narrazione dal passato verso il presente non è libera e pura, perché quel passato, nei suoi elementi originari, la consente e la condiziona, con modalità inanalizzabili.

L’inanalizzabilità dell’origine limita, di conseguenza, anche la stessa portata ricostituiva del soggetto nel transfert analitico. Se l’origine non è narrativizzabile, secondo Butler, ‘non potrò mai restituire il racconto di me che certi modelli di salute mentale esigono, in cui il sé si riconsegna in una forma narrativa coerente’. La famosa scena primaria sarebbe dunque la scena interlocutoria primaria? Una scena in cui il sé è introdotto al linguaggio senza che possa mai darne un resoconto definitivo, perché in quanto interlocutoria – in un passato preistorico – precede la storia, il racconto – al presente.

 

Né l’ontico né l’escatologico

Se non a partire dal futuro o dal passato, si può in qualche modo oggi fare ancora i conti col presente? O meglio, rendere conto del presente, che sia il proprio o quello di una comunità? Per me una risposta alla linea di confine costituita dalla domanda del presente, se pur ci sia, non può in ogni caso essere cercata in una evasione al di qua o al di là di questa linea. Non può essere l’escatologia, il rilancio oltre, verso delle finalità che sfuggono, come rischia di sfuggire lo stesso futuro cui esse tenderebbero. Verso dove ci progetteremmo? Ci gettiamo in avanti, nell’aspettativa o nel dovere, ma verso cosa?

Ma la risposta non può neppure ricadere sui ‘bei tempi andati’, un rientro nostalgico al passato; o, ancora più riduttivamente, sull’appiattimento nel godimento di un semplice presente dell’essere che sarebbe nulla più che un ritrarsi nell’ontico. L’ente che conserva e logora nell’uso la propria sussistenza.

 

Il presente dell’arte

E dunque? Certo, mi verrebbe da fare in ogni caso, pur coi limiti emersi, appello alla memoria, alla narrazione del sé, al riconoscimento nel presente di una propria storia (e delle storie, quelle di tutti: narrate uomini le vostre storie). Ma come sottrarsi all’interdetto dell’irripetibilità? Come evitare di ricadere sotto la violenza del passato? Latouche conclude con Oscar Wilde che, per una società della decrescita, ‘l’arte è inutile e dunque essenziale’. Ecco, forse l’unico presente pensabile è quello della poesia. Diceva Iosif Brodskij che il tempo è come l’acqua: entrambi offrono alla bellezza il suo doppio. Noi andiamo (verso un futuro? chissà), la bellezza resta, nel ri-flettere dell’arte. È la memoria del Noi che per Lautréamont parla nella poesia; di più, nella poesia si crea ed elabora una memoria del già presente. Pre-etica, forse pre-politica, certo non rappresentativa di cose o di istanze programmatiche: oserei dire pre-categoriale. Riconosciuta la non completa analizzabilità del soggetto e della sua origine, l’arte, che non è pretesa di pura descrittività, può essere, se vogliamo dire così, narrazione che non si illude sulla ricostruzione razionalizzata e coerente del proprio soggetto – in ambedue i sensi; ma nemmeno si appiattisce nel riprodurre un passato in parte inevitabilmente opaco.

Il Candido di Voltaire che si accontentava di coltivare il proprio orto, dopo il fallimento della grande progettualità sistematica alla Pangloss, non era uno sconfitto. Forse si chiudeva in una prospettiva limitata? Ebbene, ampliandola, si dovrebbe provare a coltivare poeticamente il proprio orto. Che si vive nel presente della creatività. Non le grandi narrazioni ideologiche come prefigurazioni ideali, ma le’piccole’ narrazioni come trasfigurazione, questo sì. ‘Fermati, sei bello!’ dice all’attimo il Faust di Goethe. Ma non sarà il patto mefistofelico a fermarlo. Non è sufficiente consumare onticamente l’attimo: sarebbe destituito di senso, annichilendosi nel consumo. Né si può riviverlo, o programmarlo verso il futuro. Ma, forse, accoglierlo consapevolmente, abitarlo creativamente – forse questo sì. Che è anche un lasciar andare, fluire senza sublimazione. Come conclude ultimativamente, dopo la discesa alle Madri, Rilke nella decima Elegia Duinese:

 

Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un

simbolo in noi,

vedi che forse indicherebbero i penduli amenti

dei nocciòli spogli, oppure

la pioggia che cade su terra scura a primavera.

 

E noi che pensiamo la felicità

come un’ascesa, ne avremmo l’emozione

quasi sconcertante

di quando cosa ch’è felice, cade.

 

 

 

Nota bibliografica

Mi hanno accompagnato e sostenuto, in questa breve ma avventurosa passeggiata, fra gli altri i seguenti testi:

- Chuang-Tzu, a cura di Fausto Tomassini, TEA, Milano 1999.

- Ernst Bloch, Il Principio Speranza, Garzanti, Milano 1994.

- Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008.

- Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1982.

- Vladimir Jankélévitch, La coscienza ebraica, Giuntina, Firenze 1986.

- Judith Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006.

- Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971.

- Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, Adelphi, Milano 1991.

- Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Einaudi, Torino 1978. traduzione di Enrico e Igea De Portu.