Dal maggio 2022 su questa rivista non sono più accessibili molte immagini d'arte coperte dal copyright dei proprietari, ovvero generalmente musei e collezioni. Nella gran parte dei casi, l'immagine risulta vuota ma è leggibile la sua didascalia, per cui resta possibile la sua visualizzazione nei legittimi contesti.

Redazione e contatti

Cerca nel sito

Arte al presente (!)

 

La tesi che intendo argomentare è che oggi l’esibizione dell’arte avviene in modi che tendono a evitare l’incontro con ciò che è proprio della pratica artistica. Più precisamente, la crescente promozione dell’arte esercita una pre-potenza nei confronti della possibilità dell’incontro. Si obietterà: l’arte è promossa proprio perché sia incontrata. E s’insisterà: la promozione è la condizione necessaria per un incontro finalmente “democratico” con l’arte, perché l’arte generalizzi i suoi effetti, diventi popolare, sia tolta dalla condizione marginale in cui spesso è stata confinata. Perché mai, dunque, l’offerta crescente dovrebbe evitare l’incontro? Dal mio punto di vista, la filosofia, come pensiero dei pensieri singolari che sono pensati al di fuori del suo ambito – l’arte è uno dei campi di tali pensieri – ha il compito di indagare se l’attuale promozione dell’arte, che è a mio avviso uno dei più rilevanti fenomeni politico-culturali del presente, sia capace di essere giusta con l’arte. Poiché penso che promuovere e favorire un incontro siano due atti radicalmente diversi, ho voluto dare al titolo di questo scritto anche il punto esclamativo di un invito, anzi di un obbligo. Nel tempo della promozione dell’arte, tocca anche alla filosofia offrire al presente l’arte in quanto arte e favorirne così l’incontro.

Conviene soffermarsi sul significato di “incontro”. Per incontro intendo l’essere colti, colpiti e destrutturati, fosse anche per un istante presto dimenticato, dall’alterità dell’altro, dalla sua eterogeneità (che può essere anche un arte-fatto), dal presentarsi della sua incommensurabile differenza, che ne fa una vera e propria intrusione nella rete delle differenze e relazioni note. L’incontro interrompe la catena delle differenze – il loro richiamarsi reciproco in quanto differenze che si identificano appunto per differenza l’una dall’altra, e così si contano e si legano come pluralità di differenze. Pluralità che costituisce l’insieme dei possibili con cui commerciamo quotidianamente, sia come differenze presenti sia come differenze in potenza che delimitano l’orizzonte delle nostre aspettative. Non sono queste differenze ad essere gioco nell’incontro, perché l’incontro non si presenta come un commercio. L’incontro non è che subire-sentire un’intrusione, il presentarsi senza preavviso, senza segni di riconoscimento, in una lingua straniera, di un’alterità che fa “tremare” la presunta consistenza delle nostre abitudini senso-motorie, degli schemi con cui anticipiamo l’esperienza, della “partizione” del sensibile, dei saperi con cui la sistemiamo.

“Arte” è uno dei nomi delle alterità slegate dalla catena delle differenze. Alain Badiou direbbe che altri nomi di queste alterità, che potremmo definire “differenze assolute”, sono “politica”, “scienza”, “amore”1. Con la precisazione che queste molteplicità di differenze assolute sono tra di loro eterogenee. Vale a dire che le molteplici eterogeneità artistiche sono irriducibili a quelle politiche, scientifiche o amorose. Incontrandole, noi incontriamo l’assoluto quaggiù. L’assoluto quaggiù non è che la molteplicità delle differenze assolute. L’assoluto non s’incontra che quaggiù, non ha altro luogo che il quaggiù, né altro modo che molteplicità eterogenee di incommensurabili. Il che significa che l’incontro fa vacillare l’opposizione di trascendenza e immanenza: l’immanenza non sembra bastare a se stessa e la trascendenza non fugge altrove. In altri termini: in ciò che è, grazie all’incontro con la differenza assoluta, si avverte una frattura, un vuoto.

 

Per quel che riguarda l’arte, l’incontro non provoca soltanto un tremito nella trama delle differenze e un giudizio con il quale tentiamo di prendere posizione di fronte al tremore, invita anche a restargli fedeli, a “esprimerlo”. L’incontro invita a danzare, a “comporre” gesti che interrompano le abitudini senso-motorie e aprano nuove possibilità di apparizione. La danza cui siamo invitati non è una danza conosciuta. I suoi movimenti non hanno nulla a che fare con quei rituali che disinnescano la potenzialità del gesto proprio quando promettono dipromuoverne la liberazione: si pensi agli spazi ben delimitati che la società offre alla cosiddetta cura e liberazione del corpo, dove la “liberazione” non solo si trova “confinata” ma funziona anche come una procedura di controllo dei gesti secondo gli ideali della giovinezza, della bellezza, della “forma”. Ma anche nelle situazioni meno solipsistiche, quando siamo invitati non tanto a liberare il nostro corpo in nome dell’ideale ma a prendere “contatto” con il corpo dell’altro, sono all’opera rituali, “guide” o maestri che anticipano il gesto in vista di una sua disposizione armonica. Insomma, la danza cui l’arte ci invita è una danza senza modelli, che forza anche i limiti, sempre più sottili e interiorizzati, degli attuali protocolli di liberazione e valorizzazione del corpo. Una danza che non mira all’armonia con un presupposto cosmo, perché risponde alla manifestazione di una differenza acosmica.

La danza è l’avvio del pensiero2, della procedura che sospende i protocolli. A volte, bastano delle imprevedibili e minime variazioni di passo nell’esecuzione di una danza conosciuta, perché una danza sconosciuta venga al mondo. L’incontro invita a iniziare a pensare, danzare, per restare fedeli a ciò che si è incontrato. L’incontro reclama, comanda, una fedeltà che può essere assunta o rinnegata, ma che in ogni caso non smette di chiamare. Si può rinnegare solo ciò che continua a chiamare.


L’imperativo della fedeltà può imporre di rompere con l’arte che non è più capace di rottura. Si rompe con l’arte in nome dell’arte, per “troppo” amore nei confronti delle opere che un giorno ci hanno folgorato: «Ho sempre amato molto il teatro, eppure non ci vado quasi più. È un voltafaccia che insospettisce anche me. Cos’è accaduto? Quando è accaduto? Sono cambiato io o è cambiato il teatro? Non lo amo più o lo amo troppo?»3. La spiegazione che Barthes darà del suo “voltafaccia” offre un’illuminante testimonianza e interpretazione di ciò che significa incontrare l’arte. Barthes spiegherà così le ragioni del suo voltafaccia: quand’era adolescente, a partire dai quattordici anni, andava regolarmente a vedere un certo teatro, un teatro in cui gli autori non incarnavano i loro ruoli ma parlavano una lingua «strana e suprema», la cui qualità costituiva «non era né l’emozione né la verosimiglianza, ma solo una sorta di chiarezza appassionata»; poi si diede alla creazione di un gruppo teatrale e finì col recitare I Persiani; dopo anni di allontanamento dal teatro, segnati dalla guerra, la malattia, i soggiorni all’estero, partecipa alla fondazione della rivista «Théâtre Populaire» grazie alla quale ritiene possibile porre i problemi «in grande, dal punto di vista teorico e al tempo stesso con una critica regolare degli spettacoli rappresentati»; ma ecco l’incontro, il 29 giugno 1954, con il Berliner Ensemble che impone di rompere con il teatro per fedeltà a una procedura teatrale4 per la quale Barthes inventa la categoria di «perfezione brechtiana». L’invenzione della categoria è figlia dell’incontro ed è proprio questa discendenza che le consente di alzarsi in volo, sorvolare l’incontro, guardare a distanza e perciò illuminare sia ciò che è avvenuto prima del 29 giugno 1954 – il progetto della rivista, ad esempio, già in opera un anno prima dell’incontro – sia ciò che è avvenuto dopo: il “voltafaccia”.

Scrive Barthes: «Questa illuminazione è stata un incendio: davanti ai miei occhi non è rimasta traccia del teatro francese; tra il Berliner e gli altri teatri ho percepito una differenza non di grado ma di natura e, quasi, di storia. Da ciò deriva il carattere radicale che quest’esperienza ha avuto per me. Brecht mi ha fatto passare la voglia di ogni teatro imperfetto, e proprio a partire da quel momento, credo, non sono più andato a teatro. Queste affermazioni sembreranno forse eccessive, poco ragionevoli, poco costruttive: non è serio (o almeno così si dice) allontanarsi da un’attività con il pretesto che non può essere perfetta. So che questo ritiro è ingiusto nei confronti di alcuni autori e di alcune compagnie di oggi, ma si deve capire che la perfezione brechtiana metteva a nudo le incapacità profonde del nostro teatro»5. La fedeltà all’incontro è estremista, va all’estremo delle conseguenze. Ma l’estremismo della fedeltà è virtualmente infinito: da un incontro si possono trarre infinite conseguenze, mai “tutte” le conseguenze. L’estremismo della fedeltà non mira a uno “stato” e si può dire che un incontro con l’arte è effettivamente avvenuto, se l’impatto con le opere avrà scatenato un incendio. L’illuminazione, il fulgore dell’incontro hanno destrutturato a tal punto il rapporto di Barthes con il teatro francese e con le sue abitudini di spettatore da imporgli la rottura con le opere teatrali del suo tempo: «Bisogna dunque tornare alla folgorazione brechtiana, perché proprio questa, a quanto sembra, mi ha paradossalmente allontanato dal teatro». La fedeltà all’incontro obbliga all’allontanamento, alla separazione perché ciò che si è incontrato è un’arte che spicca per “distinzione”, che dà luogo essa stessa a una “secessione”: «Resterò al livello della testimonianza personale, isolando, nella mia fedeltà alla drammaturgia brechtiana, a costo di esagerarlo, un elemento all’apparenza irrisorio: la sua distinzione». La distinzione, come Barthes spiega, non va intesa in relazione a dei fenomeni di classe, ad esempio come la volontà della classe borghese di distinguersi “nei dettagli” dal volgo. La distinzione di cui qui si parla non ha nulla a che fare con un atteggiamento estetizzante ma con la creazione di una “forma separata” all’interno dell’arte democratica. Creare una “forma separata”, una “distinzione” – è improprio dichiararla “differenza assoluta”? – significa separare il popolo dalla “volgarità” (“cattiva economia dei segni”, secondo la definizione di Barthes) e l’arte dall’“estetica della compiacenza”.

L’incontro con Madre Courage e i suoi figli nella messa in scena dei Berliner chiarisce a Barthes il desiderio che arde nella sua partecipazione alla rivista «Théâtre Populaire». Che cosa significa desiderare un “teatro popolare”? L’incontro con Brecht offre la risposta: creare una forma non compiacente che introduca un “conflitto”, una tensione nei piaceri popolari. Aprire il popolo all’accadere è l’unica regola non “abusiva” di un’arte davvero popolare: «Trasportare un valore di secessione in un’arte ‘democratica’ mi sembra assolutamente necessario. Non c’è storia, non c’è movimento storico senza conflitto; non c’è opera totale senza contraddizione. Introdurre in uno spettacolo politico,‘popolare’, un germe incessante di ‘distinzione’ (qualunque sia il contenuto) mi sembra esattamente una regola politica e ‘popolare’: prima di tutto perché una forma ‘separata’ conferisce all’opera una tensione interna senza cui ‘non accade nulla’, poi perché questo problema interessa tutta la nostra cultura di massa». Brecht ha fatto il miracolo. Ha risolto una contraddizione che sembrava insolubile: ha creato un’arte «al contempo accessibile e difficile».

Come sappiamo da Jean-Luc Rivière6, curatore della raccolta degli scritti di Barthes sul teatro, a distanza di anni questi testi appariranno a Barthes “datati” e “insopportabile” gli suonerà il tono militante che in essi si esprime, né gli piacerà la lingua che li attraversa, forse perché quella lingua tende a “incarnare” il dettato brechtiano. Si consuma così la fedeltà di Barthes all’incontro? Il fuoco attizzato dai Berliner si è spento?

Se l’incontro è stato un incendio, questo ha bruciato il rapporto con il teatro francese ma, nello stesso tempo, il fuoco per il teatro ha dato ancora fuoco a se stesso per far divampare il teatro nei testi di Barthes. Il teatro fuggito sarà anche un teatro dislocato e propagato nella scrittura, come scrittura. Parlando di sé Barthes annota: «Al crocicchio di ogni opera, forse il Teatro: non c’è alcuno dei suoi testi, in realtà, che non tratti di un certo teatro, e lo spettacolo è la categoria universale sotto le cui spoglie viene visto il mondo»7.

Da lettori di Barthes sappiamo che la fedeltà al teatro non solo persiste nei temi dei suoi testi, come ciò che annoda la sequenza degli scritti e il dispiegarsi della teoria, ma anche come ciò che gli comanda, già nelle vicinanze dell’incontro con l’arte di Brecht, una teatralizzazione della lingua, una lingua-danza che ripeta la “dizione” – le movenze chiare e appassionate – che aveva tanto amato da giovane spettatore e che aveva nuovamente incontrato come «forma separata», «distinzione», nell’arte insieme «accessibile e difficile» di Brecht.


L’incontro mostra il limite delle enciclopedie del sapere, la loro incapacità di sistemare nelle categorie note il gesto inaugurale dell’arte, così che ogni evento artistico obbliga a riscrivere l’enciclopedia del sapere, anche solo per aggiungere il nome-indice dell’apparire di una nuova singolarità artistica. Nell’arte la singolarità si dà non tanto come apparizione di una singola opera ma come presentarsi di una singolare sequenza di opere. Alain Badiou ha utilizzato al riguardo il concetto di “procedura”: l’arte come molteplicità di singolari procedure di verità, ciascuna delle quali intessuta da una molteplicità virtualmente infinita di opere. Viene così teorizzato il declino del primato dell’opera, della sua finitezza, perfezione e intangibilità, a favore dell’autorità dell’infinito che si dispiega in ogni procedura o configurazione artistica: «Una procedura di tal sorta è composta esclusivamente di opere, ma non si manifesta – in quanto infinita – in nessuna di esse»8.

L’opera non incarna – anche Badiou come Barthes avverte la necessità di una critica dell’incarnazione – la verità o l’infinito. L’opera è solo uno dei punti casuali della configurazione artistica composta di un’infinità virtuale di opere. Ogni opera, nella sua finitezza e delimitazione, è un punto di passaggio di una procedura singolare; punto in cui la configurazione pensa se stessa, la sua eccezionalità, fa il punto su ciò che è stata e nello stesso tempo si apre all’avvenire. Da questo punto di vista, la singolarità di ogni configurazione artistica è coestensiva alla molteplicità virtualmente infinita di opere che la compongono: «Naturalmente la situazione di una configurazione (poniamo: il romanzo narrativo nel periodo di Joyce, o lo stile classico ai tempi di Beethoven) non va affatto intesa come una molteplicità finita, poiché niente al suo interno ne fissa i limiti. La scarsità dei nomi propri, o la brevità delle sequenze interessate, non sono che delle conseguenze empiriche senza importanza. D’altronde, al di là dei nomi propri ritenuti illustrare una data configurazione – punti-soggetto ‘fulgenti’ che ne illustrano la traiettoria generica – esiste sempre in realtà una quantità virtualmente infinita di punti-soggetto minori, sconosciuti, ridondanti, etc., che tuttavia fanno parte della verità immanente di una configurazione consistente»9.

Se l’eccezionalità della configurazione non può essere dedotta o anticipata dall’enciclopedia dell’arte, la sua infinità intrinseca – il suo pensiero – non consente di darne conto in maniera completa ma solo di descriverla in modo imperfetto. L’autorità dell’infinito ridimensiona le pretese del sapere e il pensiero si mostra ancora una volta, ogni volta che si dà una configurazione artistica, irriducibile al sapere.

Se l’evento artistico obbliga a riscrivere l’enciclopedia dell’arte, non è vero il contrario: non è possibile che l’arte accada, si escriva, mi si passi il termine, per il fatto stesso che esiste l’enciclopedia dell’arte. E questo perché, per dirla con Derrida, «l’arte esibisce la propria nascita in ogni opera, e questa inauguralità di ogni momento della creazione fa sì che esso non si lasci classificare all’interno di una storia dell’arte. Ogni artista, e non solamente i grandi artisti, appartiene alla storia senza appartenervi. Inventa qualcosa solo a condizione di non appartenere alla storia»10.


La tradizione dell’arte vive nel ripetersi dell’atto d’invenzione con cui l’artista sottrae la procedura di cui è il supporto alla storia dell’arte, in modo che la procedura vi appartiene senza esserne inclusa. Da questo punto di vista, un artista “tradizionalista” si collocherebbe di fatto, nonostante le sue intenzioni, al di fuori della tradizione dell’arte. Egli mancherebbe la tradizione, perché questa si tramanda attraverso gesti che si sottraggono alla storia dell’arte. Proprio la sua fedeltà “tradizionalista” comporterebbe l’infedeltà alla tradizione. L’artista è sottomesso alla legge dell’arte quando interrompe la storia dell’arte. O ancora: egli appartiene alla storia dell’arte grazie al gesto che attraverso di lui ne interrompe il corso. La sovversione è la tradizione dell’arte.


L’incontro è imbattersi in un’apparizione impossibile, in una mostruosità. Apparizione impossibile, figura più che forma, perché eccede l’insieme dei possibili al di là di ogni immaginazione. La mostruosità non è data solo dal vuoto prodotto dal gesto che mette al mondo una serie di opere mai viste, mai udite, ma anche dal divenire mostruoso, grazie ad un semplice gesto dislocante, si pensi a Duchamp, del già visto, già udito, già usato. Un tale accadere, che contesta con il suo solo presentarsi ciò che potremmo chiamare il trascendentale dell’apparire, produce un misto di stupore, entusiasmo e dispiacere. Stupore ed entusiasmo per il fatto di essere colti da una ‘mostrazione’ che forza i confini dei sensi – che ci fa di nuovo sentire di sentire e ci invita alla danza – e dispiacere per il non sentirsi capaci, come Kant aveva esplicitato, di corrispondere all’appello di ciò che si mostra.

L’incontrocon l’arte non è piacevole: è meno e più che piacevole. In quel misto eccessivo di stupore, entusiasmo e dispiacere che non ci consente di essere appagati, che ci fa vibrare di una tensione senza oggetto, agisce anche il giudizio dell’opera d’arte su di noi. Non siamo solo chiamati a giudicare l’opera; ci sentiamo anche oggetto del suo giudizio. Le due cose stanno insieme: nel mentre siamo chiamati a un giudizio per il quale non possediamo la categorie, avvertiamo il giudizio dell’opera che sentenzia la nostra incapacità di corrispondere al suo eccesso. L’incontro suscita il senso di colpa nei confronti dell’infinito che è all’opera nell’opera: «Sono sempre in colpa di fronte a un’opera, in mille modi. Sono in colpa innanzitutto perché non vi ho contribuito: essa ha avuto luogo senza di me. Ma sono in colpa anche perché non arriverò mai a esaurirne il senso, in quanto l’opera eccede sempre ogni appropriazione possibile. Per questo spero e desidero che l’opera mi si doni e mi perdoni, là dove ciò è impossibile, là dove sono imperdonabile. Non posso commisurarmi ad essa. Mi eccede infinitamente, e sono colpevole, pur non avendo commesso alcun crimine: sono colpevole a priori»11.

Se l’opera d’arte mi fa sentire in colpa, è anche perché essa arriva senza preavviso, “ha avuto luogo senza di me”, eccedendo a tal punto l’orizzonte delle mie attese e intenzioni che non ho nulla in comune con lei. Incontrare l’arte significa lasciarsi toccare dalla violenza del gesto inatteso e sentirsi colpevoli di fronte alle sue opere, proprio perché non si è per nulla contribuito al suo evento. Si tratta, dunque, di una colpa paradossale: colpa di fronte a ciò di cui non si è responsabili. Ma non si tratta di una colpa tragica. Ciò di cui l’arte mi accusa non è di essere colpevole di atti criminali che non ho deliberato, che anzi ho tentato inutilmente di evitare, ma di essere ciò che sono, confinato in me, di non corrispondere all’infinito che mi attraversa e che l’arte rivela nei modi che le sono propri. Sono colpevole di bearmi nel gioco dei possibili conosciuti o immaginati, di non evadere nell’impossibile e grazie a esso.

Il sentimento della colpa appartiene agli “affetti” dell’incontro. È l’affetto di una tensione che inizia a tendermi genericamente (non ne conosco la direzione) oltre quell’apparire delimitato che sono e che ora si mostra in tutta la sua stupidità. Il sentimento della colpa, in questo caso, nell’occorrenza dell’incontro, è già tensione oltre la colpa di essere. È questo inizio di scollamento, di separazione da me stesso, prodotto dall’apparire di una “forma separata”, a far sorgere nella colpa un piacere disinteressato. L’incontro reclama nella colpa una fuoriuscita dalla colpa. Ci troviamo così di fronte ad un giudizio che non ci danna definitivamente, come il giudizio di Dio, né ci condanna per non essere all’altezza degli ideali sociali, ma ci condanna silenziosamente perché non esistiamo, non evadiamo in una danza atea e non guidata da ideali12.


Ai fini della tesi che mi sono proposto di argomentare, conviene trarre ancora qualche conseguenza dal discorso fin qui proposto. Innanzitutto, va sostenuto che l’incontro con l’arte non è programmabile, perché l’arte non è prevedibile. Come l’incontro amoroso, l’incontro con l’arte accade eccedendo ogni volontà e attesa. In quanto evento, incidente espressivo, l’arte introduce nel tempo l’esperienza del contrattempo. L’arte non giunge quando conviene, non asseconda il corso o i bisogni del tempo. Come sostiene Derrida, l’arte, se c’è arte, è per essenza anacronistica. E dunque mai nostra contemporanea. E neanche contemporanea a se stessa, perché, impegnata a mantenersi fedele al suo evento, è sempre sul punto di trascendere le sue opere per “ripetere” il gesto inaugurale. Come per ogni procedura di pensiero, il tempo dell’arte non è il passato, il presente o il futuro, è l’avvenire.


La macchina della comunicazione e la macchina del politico sono oggi, a mio avviso, tra le forze più significative che nel promuovere l’arte lavorano per neutralizzare o limitare gli effetti dell’incontro. Sono macchine che “impiegano” l’eccesso dell’arte per rafforzare sia il codice della comunicazione sia la capacità del politico di “tenere” il legame sociale. Le due macchine, come sappiamo, spesso si sovrappongono, si alleano, e anche quando si scontrano, mostrano una profonda solidarietà nel riprodurre la logica dell’apparire. In un caso e nell’altro, si tratta di un lavoro che tende a disinnescare le potenzialità dell’eccesso artistico, la possibilità che divampi l’incendio13, la macchina comunicativa e il politico sono impegnate a scongiurare l’interruzione comunicativa, ossia l’avvento dell’incomunicabile, e l’interruzione del politico-statale, ossia l’avvento della politica14. La novità sta nel fatto che è oggi è proprio l’interruzione prodotta dall’arte a essere impiegata ai fini della non-interruzione delle relazioni comunicative e di potere. La radicale “capitalizzazione” dell’arte non sta tanto nell’estendersi del suo trattamento mercantile, quanto nell’investire in essa per produrre un plus-legame. Capitalizzazione dell’interruzione = riproduzione allargata del legame sociale.

Scongiurare l’avvento di “differenze assolute”, di eventi che aprano lo spazio per azioni di “slegamento” e procedure compositive incommensurabili e infinite, non significa per le odierne macchine comunicative e politiche “reprimere” l’evento ma anticiparlo, promuoverlo, controllarlo o neutralizzarlo attraverso la sua produzione programmata o collocazione in contesti che ne addomestichino l’apparizione. Per quel che riguarda l’arte, le due macchine favoriscono sì la frequentazione e la fruizione delle opere ma il favore che concedono è, nello stesso tempo, sottratto all’incontro: un favore attraverso cui avanza una mancanza di favore. L’incontro con l’arte potrebbe guastare, infatti, il funzionamento delle due macchine, i loro calcoli, la loro specifica produttività. Le due macchine temono il pensiero che è all’opera nell’arte, perché le operazioni del pensiero sono inseparabili dalla potenza di sovvertire la logica dell’apparire. Gli artisti stessi sono coinvolti, attraverso la promozione del loro nome, nei “trattamenti” che evitano l’incontro con l’intrattabilità del pensiero all’opera nell’arte. Il nome dell’artista sembra a tal punto racchiudere il segreto dell’arte che pare inevitabile dover incontrare l’artista per incontrare l’arte. Il nome dell’artista funziona da nome del proprietario. Sappiamo così a chi rivolgerci perché ci siano comunicate le enigmatiche proprietà dell’arte. Chi meglio del proprietario può comunicarne i segreti? Il nome dell’artista funziona da feticcio che distoglie dall’incontro con la “cosa” dell’arte.


La norma fondamentale della comunicazione è che tutto sia comunicabile, che nulla si sottragga per principio alla comunicabilità, lasciandosi così riconoscere e identificare. Ma perché una regola sia efficace è necessaria una forza che la renda tale: la potenza della comunicazione è inseparabile dal potere dei suoi dispositivi. La pre-potenza comunicativa tenta di fare presa sulla potenza dell’arte per riprodurre la propria pre-potenza. Una pre-potenza che sfugge alla comunicazione, perché altrimenti la comunicabilità mostrerebbe la sua contingenza, la violenza che la costituisce, e perderebbe quell’apparenza di necessità che la rende ineluttabile. La comunicazione non può comunicare la violenza che la istituisce. Anche quando la comunicazione sembra svelare, comunicare, la violenza che la segna, una tale rivelazione è ascritta ancora a merito della comunicazione, che così si presenta come custode della non violenza. Si fronteggiano così due violenze: la violenza non dichiarata della comunicazione nei confronti dell’interruzione e la violenza dell’interruzione nei confronti della continuità della comunicazione. (Se la filosofia intende favorire l’incontro con l’arte, è obbligata a misurarsi ancora una volta con la questione della violenza per esplicitare la differenza che l’attraversa. Per abbozzare solo una proposta d’indagine, andrebbe portata al concetto la differenza tra la violenza che programma le differenze e la violenza inaugurale della differenza assoluta che frattura la logica dell’apparire delle differenze15).

L’arte viene resa contemporanea dalla comunicazione grazie ad un’incessante produzione di eventi. L’evento è anticipato, prodotto, braccato e infine presentato. La comunicazione s’identifica con la produzione intenzionale dell’evenemenzialità dell’arte. L’evento artistico è contemporaneo perché la sua apparizione è ciò che la macchina comunicativa ha di mira. L’evento è il miraggio della comunicazione. La comunicazione comunica ciò che prodotto in base alle sue mire e produce ciò che comunica, per il fatto stesso che lo comunica: c’è evento perché è la comunicazione a dirlo. La macchina comunicativa funziona in base alla convinzione di padroneggiare la produzione e le sue mire, di padroneggiare la sua stessa intenzione e l’evento che ne scaturisce. Per la macchina comunicativa non c’è lavoro dell’inconscio.

E se accade che l’arte sia qui, di colpo, indipendente dalla macchina comunicativa, i protocolli della comunicazione si mettono all’opera per esaurire i possibili che dischiude. La comunicazione dell’evento tenta di consumarlo prima e dopo che sia incontrato. La macchina comunicativa, come quella del politico, è segretamente angosciata dalla natura inappropriabile e non consumabile dell’arte, dal suo presentarsi come incidente, contrattempo che guasta la macchina, ne interrompe il flusso. (I “resistenti” di Bastardi senza gloria di Tarantino montano alcuni fotogrammi eterogenei nella pellicola destinata a rinsaldare il legame tra spettatori e Führer. Il nuovo montaggio provoca una mostruosità audio-visiva che disturbando, come un’improvvisa spina nell’occhio o un insopportabile rumore nell’orecchio, il flusso delle immagini e dei suoni, sospende e già disperde il raduno destinato all’acclamazione, alla gloria di ciò che raduna, che fa Uno di ciò che appare).

 

Se la società ancora resiste o resta indifferente all’arte, non contemplandola tra i suoi piaceri, il politico s’incarica con intensità crescente di promuoverne l’esibizione. La novità sta nel favore crescente che concede all’arte moderna o, come si suol dire, contemporanea. L’esistenza di censure, incomprensioni o tagli di bilancio, nulla toglie, a mio avviso, all’affermarsi di una tale tendenza, che non va disgiunta (bisognerebbe approfondire il tema) dall’interesse per l’architettura contemporanea.

L’impegno per l’arte è cosa assai diversa dall’esperimento del politico novecentesco – così è stato interpretato lo stesso fenomeno nazionalsocialista – di praticare la politica come quell’arte che plasma la materia umana al fine di radunare, installare ed “erigere” un popolo presente a se stesso. Secondo quella prospettiva, l’unità del popolo – la sua integrità – è l’opera, essenzialmente scultoria, del politico-artista. Il popolo è sì un’opera vivente, che non sta ferma, ma la sua vita riproduce il typos16, l’impronta in forma di scultura prodotta dal politico. Parlo di impronta perché il popolo è materia plasmata/temprata ed è la “tempra” a mantenerlo eretto, innalzandolo al di sopra degli altri popoli o simulacri di popoli. Il popolo è un’opera che si “trattiene” nella perfezione, perché mantiene il tratto che la distingue e la fa “svettare”. Il popolo come opera è il popolo messo in forma, nel limite che lo mostra come uno e unico, costituito di un’unità così integra da farne l’unica incarnazione del Popolo. La bellezza è concessa al popolo proprio dalle caratteristiche che ha ereditato dall’opera: il popolo-opera è compiuto, perfetto, insostituibile in ogni sua parte, presente a se stesso, ed è l’unico popolo-opera possibile perché incarna l’archetipo del popolo.

Ma il popolo è un’opera che vive: il limite può decomporsi e l’opera “deformarsi” grazie all’opera di agenti esterni capaci di penetrare l’interno. Compito del politico e del popolo stesso è allora quello di custodire l’integrità dell’opera, difendendola dalla minaccia della deformazione o della dispersione. E dunque anche dalle pratiche dell’arte “degenerata”, vale a dire di quell’arte che non “genera” perfezione, che non idolatra l’opera, perché non mira, come l’arte classica (il modello è una certa idea della Grecia antica), al mantenimento del limite, dell’integrità e ordine delle parti. In quanto opera vivente – materia vivente plasmata in opera che vive – il popolo è anche lo spettatore dell’opera, cioè di se stesso. Il popolo-opera deve essere plasmato in modo tale da essere in grado di auto-comporsi, di assistere a tale auto-composizione e goderne. In quanto vivente, l’opera potrebbe sfuggire a se stessa, per cui plasmarla significa renderla capace di auto-comporsi nell’ascolto del comando dettato dalla voce che guida. L’opera, al limite, deve essere pronta ad autodistruggersi, se la sua integrità è messa in pericolo da un nemico che non è possibile sterminare.

Si potrebbe dire che oggi, invece, il politico tende a promuovere proprio quella che un tempo fu considerata “arte degenerata”. Non si tratta più di fare del popolo un’opera d’arte o di indurre l’arte a propagandare fino alla morte l’arché della propria composizione, quanto di stabilire un’alleanza tra il politico e l’arte ai fini del governo liberale delle popolazioni metropolitane. L’arte “contemporanea” diviene oggetto di una governamentalità che promuove la libertà – la promozione, in questo caso, della libertà dell’espressione artistica. La promozione della libertà è la forma odierna del controllo, il modo di far sì che la libertà non sia “troppo” libera, non sia lasciata anarchicamente libera di accadere. Da questo punto di vista, il compito del politico non è quello di assoggettare l’arte a un’ideologia, di farne l’illustrazione seducente – la propaganda – di principi filosofico-politici, quanto piuttosto di separarne la fruizione dall’incontro con l’eccesso che la anima, al fine di renderne “socievole” il gesto, pacificandone o limitandone la spinta “terroristica”. (Per “terrorismo” dell’arte intendiamo, alla maniera di Hegel, la furia con cui l’arte fa dileguare, con le sue creazioni – i suoi “mostri” –, il mondo delle forme conosciute). La libertà espressa nell’arte degenerata viene messa al servizio della non-degenerazione della società. Il modo di questo servizio è in fondo neo-aristotelico. Non sarà la visione del tremendo della tragedia ma la promozione dello “scandaloso” a scaricare ora la tensione degli spettatori. La riduzione dell’arte a scandalo distoglie dall’incontro con il “ritegno” immanente al movimento della sovversione.

I modi istituzionali di promozione dell’arte sono volti, in alleanza con la macchina della comunicazione, a sconnettere opera e pensiero, opera e infinito, a presentare l’arte come occasione di piacere, di scarica o catarsi delle tensioni che attraversano la società. Nell’arte viene rinvenuto l’oggetto su cui allentare la tensione e con il quale guarire dalle passioni. L’esperienza del piacere evita che l’arte induca ulteriore tensione: la tensione di quel “di più del piacere” che ho prima analizzato, che rende generica la tensione, virtualmente inestinguibile e perciò ingovernabile. L’opera viene promossa come occasione di scarica, punto di godimento, piuttosto che incontrata come punto di passaggio di una procedura di pensiero che pensa e si pensa attraverso le opere, già slanciandosi oltre di esse.

Con la “cura” dell’arte contemporanea il politico metropolitano diviene, inoltre, un riferimento per il mercato internazionale dell’arte e per il circuito del turismo mondiale, acquisendo una rinomanza “globale” che è anche una nuova forma di legittimazione nel tempo della crisi del potere degli stati-nazione e delle forme politiche a essi collegate. Il nome del politico risuona internazionalmente grazie ai nomi, già risuonanti, degli artisti che promuove. Il mercato detta al politico i nomi dell’arte che questi, a sua volta, detta alla città perché ne ospiti le opere. Il nome proprio finisce col precedere le opere, così come l’artista le sue creazione, occultando il fatto che è il processo artistico a “costituire” l’artista, a dirci retroattivamente che c’è stato un artista, e non viceversa: il “nome” dell’artista è solo un effetto dell’aver luogo della procedura. Nessun nome proprio detiene la verità dell’arte o la proprietà dell’opera, ma evidentemente la concezione romantica del soggetto creatore, del genio, è funzionale alle logiche del mercato dell’arte e del circuito comunicativo in cui l’arte è presa. Inoltre, l’idea del genio è in sintonia con il timore del politico per l’esercizio collettivo e anonimo del pensiero.

Non c’è da meravigliarsi se la promozione dell’arte “degenerata” assume caratteri edificanti. Assegnandole gli spazi e i modi espositivi, il politico, in alleanza con il “curatore” (che sempre più ci appare un curatore fallimentare, agente della sconnessione di arte e pensiero a favore della connessione di arte e comunicazione), piega l’arte ad assumere significati simbolici o immaginari: piazze, musei, metropolitane ricevono dall’arte un rafforzamento della loro investitura come simboli “civili” o momenti di costruzione di un’immagine attraente di città. Ma l’arte, proprio perché eccede sia il simbolo che il carattere totalizzante dell’immagine, non solo tende ad aprire i luoghi all’infinito ma anche a collocare le cose fuori posto.

 

Perché l’arte sia incontrata è necessario inventare nuovi luoghi e modi di esposizione che la sottraggano alla presa della macchina comunicativa e della macchina del politico. Spazi e modi disottrazione che siano fedeli all’evento dell’arte. Luoghi e modi che lascino libero di manifestarsi il pensiero che è all’opera nell’opera. Se il compito di politicizzare l’arte ha un significato non dispotico, non distruttivo dell’eterogeneità dell’arte rispetto alla politica, credo che l’invenzione di luoghi e modi che si sforzino di non impossessarsi del dono dell’arte, che consentano all’arte di manifestare la sua capacità di interrompere la comunicazione, siail modo di realizzare oggi quel compito: «Ma è questa l’idea dell’arte: l’accadere, l’irrompere di un evento, che si sottrae o resiste a ogni possibile reiscrizione in uno scambio di ringraziamento, di commercio, di merci. Deve interrompere lo scambio, e anche la comunicazione»17.

Se la filosofia è il pensiero che pensa gli eventi e le irriducibili procedure di pensiero che ne scaturiscono, se la filosofia avverte il compito di indicare dove e quando la differenza assoluta, anacronistica e intrattabile, accade, allora la filosofia è responsabile della capacità educativa dell’arte. Questa possibilità non risiede, come intendeva Platone, nella capacità dell’arte, purché si sottometta alla guida della filosofia, di illustrare nel mondo sensibile una verità a lei estranea, purché si sottometta alla guida della filosofia, unica detentrice della verità. Si tratta invece di pensare che se c’è una capacità educativa dell’arte, questa avviene attraverso il suo pensiero, la sua verità immanente, purché questa verità sia messa in condizione di essere incontrata. Immagino una filosofia che entri in manifesto dissidio con il politico e la macchina della comunicazione e dia il suo contributo per pensare luoghi e modi di esposizione in cui l’arte sia incontrata nella sua verità.


 

Note con rimando automatico al testo

1 Sull’eterogeneità delle procedure di verità, cfr. Alain Badiou, Manifesto per la filosofia, trad. it. di Fabrizio Elefante, Cronopio, Napoli 2008.

2 Sul rapporto tra danza e pensiero cfr. Alain Badiou, La danza come metafora del pensiero, in Id., Inestetica, a cura di Livio Boni, Meltemi, Milano 2007, pp. 81-94.

3 Roland Barthes, Testimonianza sul teatro, in Id., Sul teatro, a cura di Marco Consolini, Meltemi, Milano 2002, p. 33.

4 Per un’analisi della procedura brechtiana cfr. Frederic Jameson, Brecht e il metodo, a cura di Giuseppe Episcopo, Cronopio, Napoli 2008.

5Roland Barthes, op. cit., p. 34.

6 Lo ricorda Marco Consolini nella sua «Introduzione» a Roland Barthes, op. cit., p. 26.

7 Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, trad. it. di Gianni Celati, Torino, Einaudi 1975, p. 200.

8 Alain Badiou, Arte e filosofia, in Id., Inestetica, cit., p. 33.

9 Ivi, p. 35.

10 Jacques Derrida, Il giusto senso dell’anacronia, in Pensare l’arte. Verità figura visione, a cura di Corrado Sinigallia e Antonio Somaini, Federico Motta Editore, Milano 1998, p. 26.

11 Ivi, p. 32-33.

12 Giudizio, danza, teatro come danza, sono temi tipici del pensiero di Antonin Artaud. Ma Artaud sembra escludere che si diano un giudizio e una colpa come quelli che abbiamo tratteggiato su indicazione di Derrida, vale a dire un giudizio e una colpa che non uccidano la possibilità della danza. Al riguardo cfr. l’illuminante saggio di Vincenzo Cuomo, Il segreto al di là del giudizio Su Artaud, in «Annuario Kainos», V, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, pp. 172-187.

13 Sui concetti di situazione, vuoto ed evento non si può che rimandare all’opera capitale di Alain Badiou, L’essere e l’evento, trad. it. di Gianni Scibilia, il melangolo, Genova 1995.

14 Enuncio solo come un assioma la differenza tra il politico e la politica. Al riguardo sarebbe necessaria un’articolata argomentazione, che non ha senso proporre in questo intervento. La questione è decisiva, oggi più che mai, proprio perché da tempo oscurata. Mi è capitato di affrontarla in Per una politica del reale, in Conflitti, a cura di Alessandro Arienzo e Dario Caruso, Libreria Dante&Descartes, Napoli 2005, pp. 127-150.

15 Sulla questione della violenza cfr. Sulla violenza, a cura del Collettivo 33, Cronopio, Napoli 2009.

16 Sul popolo come opera d’arte cfr. Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy, Il mitonazi, a cura di Carlo Angelino, il melangolo, Genova 1992.

17 Jacques Derrida, op. cit., p. 38.