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Le rivelazioni della tecnica

 

 

 

 

 

 

 

 

Quanto segue è una prima versione del terzo capitolo di un libro a cui sto lavorando in questo periodo, Anima e iPad. L’argomento che vorrei sviluppare riguarda il nesso fra tecnica e scrittura, a partire dalla massiccia evidenza per cui il carattere fondamentale del presente è l’esplosione della tecnologia della scrittura, che ha invaso ogni ambito della nostra vita. L’analisi si articola secondo quattro scansioni. La prima si concentrerà sull’essenza della tecnica, definita come registrazione. La seconda scansione esaminerà invece gli effetti della tecnica, che qui propongo di riconoscere nella mobilitazione. La terza si concentra invece sul significato della tecnica, che propongo di riconoscere in una rivelazione. Di qui la quarta scansione che propongo, e che mira a dimostrare come le azioni della tecnica, e innanzitutto la sua prestazione fondamentale, la registrazione, stiano alla base di prestazioni spiritualmente rilevanti, e anzi della più rilevante tra le prestazioni morali, ossia la responsabilità, che sta alla base della costruzione della realtà sociale.

 

 

Registrazione

 

Prima scansione, dunque: la registrazione è l’essenza della tecnica. Il mio punto è essenzialmente questo. Si equivoca quando si pensa alla tecnica come a qualcosa che fabbrica girarrosti, sveglie o computer per come li conosciamo oggi. O meglio, è vero che in tutti questi apparati, con un grado di crescente complessità, c’è della tecnica. A condizione però che si consideri che tecnica è, a stretto rigore, ogni possibilità di registrazione, che prelude alla possibilità di iterazione, cioè alla forma più manifesta in cui la tecnologia entra nella nostra esperienza. Batto un colpo sul tavolo e poi ne batto un altro: questa è già una prima forma di tecnica, qualunque cosa sia (ritmo, segnale morse, seduta spiritica…). Le iterazioni poi si accumulano e si intrecciano e alla fine c’è un oggetto così sofisticato come l’iPad e, ancora più avanti, a un livello di complicazione ulteriore, c’è un’anima. Questo aspetto merita qualche riflessione. Con una versione greca dell’ “aiutati che il ciel ti aiuta” Aristotele diceva che la tyche ama la techne, che la fortuna ama la tecnica, ossia che quanto più si è capaci tecnicamente, tanto più è facile avere dei colpi di fortuna. Ma bisognerebbe ricordare che, più profondamente, la techne ama la tabula, o meglio ne dipende, appunto perché senza registrazione non c’è tecnica (e, reciprocamente, la tabula è la prototecnica). Pensiamo ai programmi informatici, che rappresentano una delle principali realizzazioni della tecnica nella società attuale: sono esemplarmente delle registrazioni (di istruzioni) che rendono possibili delle iterazioni (di esecuzioni). Ma pensiamo anche a quando, nel parlar comune, si dice di un calciatore che “ha una buona tecnica”, volendo intendere con ciò che ha interiorizzato i fondamentali del gioco ed è in grado di ripeterli adeguatamente all’occorrenza. In tutti questi casi (e nei molti altri che si potrebbero aggiungere) “tecnica” rivela, e già nel parlar comune, la propria parentela con la registrazione.

Ora, la tecnica delle tecniche, per la nostra esperienza storica, è per l’appunto la scrittura. C’è un destino storico che fa sì che l’iPad costituisca oggi l’assoluto tecnologico, ed è un destino che sulle prime può apparire sorprendente. In pieno Novecento la scrittura – la cattiva, la reproba, l’inerte senza spirito, o anche solo, in modo più implacabile, la noiosa – sembrava agonizzante. Ma nella svolta del secolo è risorta ed è esplosa, invadendo ogni angolo delle nostre vite. È stato un trionfo che nessuno aveva previsto, anche solo un istante prima che si verificasse, e fossimo travolti da uno tsunami di computer e da telefonini. Perché la moribonda ha trionfato? Anzitutto per motivi pratici: non è sincrona come la parola, è meno invasiva, ed è per questo che il videofonino non ha mai sfondato, mentre il mondo pullula di sms. Tuttavia il vantaggio comunicativo della scrittura è un beneficio residuale e secondario. Non a caso,Platone insiste tanto sui rapporti tra scrittura e memoria, per svalutare la scrittura esterna. Però, contrariamente al suo avviso, la scrittura esterna, su papiro, carta o iPad, ha due vantaggi incalcolabili rispetto alla scrittura interna, nell’anima. Primo, l’accessibilità pubblica. Nessuno può guardare nella testa degli altri, ma leggere i testi degli altri è possibilissimo: contratti, soldi, enciclopedie, tutto il mondo sociale e tutto il mondo del sapere poggiano su questa risorsa. Secondo, mentre la scrittura interna è destinata a sparire con noi, la scrittura esterna può sopravviverci.

In questo senso, l’attuale esplosione della scrittura ci richiama a una caratteristica della nostra specie a cui non sempre si presta l’attenzione adeguata, il fatto che possediamo oggetti come cartelle, penne, moleskine, telefonini e computer. Che nelle stanze d’albergo, accanto al telefono fisso che ormai si usa solo per parlare con il portiere, c’è un blocchetto di carta e una biro o una matita (oggetti della nostra cupidigia, per fortuna che diversamente dagli asciugamani è lecito portarli via). Che esistono, nei bar e nei ristoranti, dei sofisticati apparati di registrazione che rilasciano scontrini e ricevute, in cambio di monete, banconote e carte di credito. Che in tasca abbiamo un oggetto che si chiama “portafogli”, fatto apposta per contenere documenti. Tutti questi apparati servono per registrare, potenziando e reificando la memoria.

Ora, si è detto e ripetuto, nel secolo scorso, che la nostra è la società della comunicazione. Bene, ma se fosse letteralmente così, se bastasse comunicare, il telefonino avrebbe dovuto diventare un microscopico auricolare con microfono in perenne contatto vocale con il mondo. Le cose, invece, sono andate altrimenti, e in un certo senso non potevano che andare altrimenti: non è pensabile una società in cui tutti sempre parlano con gente in ogni parte del mondo, mentre è una funzione socialmente molto utile recuperare (e inserire) informazioni da (e in) una molteplicità di archivi che stanno sempre con noi. Dopo una corsa al rimpicciolimento, i telefonini hanno ripreso a ingrandirsi, hanno potenziato le memorie, ampliato gli schermi, migliorato le tastiere, e sono diventati delle macchine per scrivere e, soprattutto, per registrare. Sono diventati degli archivi: biblioteche, discoteche, cineteche e pinacoteche intere.

Inoltre, si noti questo: scrittura, se guardiamo all’essenza, è ogni forma di registrazione. Un video o un messaggio vocale che si può riprodurre a piacere (cosa oggi tecnicamente facilissima) sono scrittura, esattamente come un file di computer o un pezzo di carta. Perciò ovunque nel mondo, dalle banche ai supermercati, dai treni ai posteggi, siamo circondati da memorie e da sistemi di registrazione. Scompare il “verba volant”, giacché la prima cosa che dicono alla radio è che la trasmissione potrà essere riascoltata in streaming – ossia che sarà registrata, e questo spiega perché sempre più le parole sono pietre. Per questo siamo la società più registrata, per così dire “orizzontalmente” della storia, anche se questa ipertrofica memoria rischia di perdersi “verticalmente”, cioè di scomparire, rischia di essere una memoria a breve o brevissimo termine, e che del nostro secolo rimangano soltanto le scritte sui tombini. Ecco che cosa esattamente si perde quando si perde la memoria, e qui il proverbio “uomo avvisato, mezzo salvato” acquisisce un altro senso, e ci svela la ragione di quel compulsivo “salvare” che sta all’interno delle nostre pratiche quotidiane.

 

 

Mobilitazione

 

Seconda scansione del nesso fra tecnica e scrittura: l’effetto fondamentale della tecnica è la mobilitazione. Con questo intendo essenzialmente due cose. In primo luogo, il fatto che la tecnica non sia una mera funzione inerte ma, esattamente come la tabula, possa diventare la sede di una iniziativa. Tra mezzi e fini non c’è una differenza essenziale, esattamente come tra lettera e spirito, e in generale fra tutte le contrapposizioni con cui ci stiamo misurando. Proprio questo spiega come, in secondo luogo, la tecnica, in quanto veicolo di mobilitazione, sia anche un mezzo di sfruttamento. Di questo si è normalmente coscienti, per le condizioni del lavoro industriale e pre-industriale, eppure, in modo piuttosto sorprendente, non si è ancora del tutto consapevoli per quanto riguarda l’aspetto centrale del mondo post-industriale, ossia la rivoluzione informatica. Questa svolta è stata spesso interpretata come una forma di pura emancipazione, al limite di superamento del lavoro e dello sfruttamento, quando invece si manifesta come la massima estensione dello sfruttamento che la storia umana abbia mai conosciuto (e, vorrei ricordare, siamo soltanto agli inizi). Si sbaglia dunque a vedere nella tecnica qualcosa che semplicemente emancipa, come spesso si dice tutte le volte che appare una nuova tecnica, oppure che disumanizza, come, di nuovo, si sostiene a ogni svolta o impennata tecnologica. Non c’è niente di più umano della tecnica, ma proprio questo fa sì che la tecnica possa essere un veicolo di sfruttamento.

La tesi è semplice: ogni sistema di emancipazione è al tempo stesso un sistema di controllo. Le macchine emancipano le persone dalla fatica fisica più dura ma le consegnano al lavoro industriale. Internet si presentava, al suo apparire, come la liberazione dal lavoro e come un contropotere. In realtà, come era del tutto immaginabile, ha introdotto un nuovo lavoro e un nuovo potere. Questo non toglie nulla ai meriti di Internet, proprio come il taylorismo non toglie nulla ai meriti delle macchine, ma è un elemento che non può essere sottovalutato, e che viene messo in ombra se la denuncia degli effetti indesiderati si riduce alla critica della addiction da Internet, o della violazione della privacy, o magari alla ipotesi che la rete genererà una nuova barbarie.

Sotto il profilo del potere – e del tutto coerentemente con quella che risulta essere l’essenza della tecnica – abbiamo infatti la registrazione totale. Tutte le transazioni, tutti gli scambi, e soprattutto ogni nostra ricerca su Internet, viene tracciata da grandi entità sovranazionali, che esercitano un controllo tanto più capillare in quanto sono i controllati a fornire volontariamente informazioni su di sé. Questo può avvenire in forma palese e volontaria, come nei social network, ma anche in forma occulta e involontaria, come nelle ricerche archiviate nei motori di ricerca. Abbiamo una enorme quantità di sapere incamerato (dunque di potere) da parte di compagnie che sono al di fuori di qualunque controllo. E una parte di questa potenza si trova già negli apparati individuali di registrazione, ossia in parole povere nei telefonini, che sostituiscono al verba volant lo scripta manent, la permanenza degli archivi.

Dalla registrazione deriva la mobilitazione totale. Quando si parla delle persone che passano una parte crescente del loro tempo libero su Internet spesso non si considera, in primo luogo, che su Internet possono anche trascorrere una parte consistente del loro tempo lavorativo ma, soprattutto, che forse questo tempo libero tanto libero non è, dal momento che mentre sono su Internet possono trovarsi a rispondere alla posta o a svolgere una delle tante attività multitasking in cui la distrazione si mescola inesorabilmente con lo sfruttamento, o quantomeno con il lavoro, con la prestazione e la responsabilità. Internet è un impero su cui il sole non tramonta mai, e il fatto di avere uno smartphone in tasca significa certo, da una parte, avere il mondo in mano, ma è anche, e automaticamente, essere in mano al mondo: in ogni momento potrà giungere una richiesta di prestazione, e in ogni momento saremo responsabili, con un processo che estende indefinitamente la durata del lavoro. Si potrebbe anche, da contratto, stabilire che si lavora un’ora alla settimana, in ogni caso vigerebbe il principio per cui si lavora in ogni ora del giorno, e chi decidesse di togliersi da quest’ottica sarebbe tagliato fuori. L’idea di essere “sempre connessi”, realizzata come mai prima dall’iPad, e presentata come un ideale altamente positivo (soprattutto, come è ovvio, dalle compagnie telefoniche) e solitamente associata a immagini ludiche, è in realtà il modo in cui il lavoro (compresa la sua ovvia conseguenza, lo sfruttamento) entra nella nostra vita. Dunque, non è affatto ovvio che Internet renda stupidi. Quello che è certo è che può rendere schiavi. E questo è il grande problema con cui si tratterà di fare i conti dopo anni di trionfalismo sul Web, quando veniva visto come fonte di intelligenza collettiva e di liberazione dalla fatica. Dopotutto, il Web è scrittura, dunque può essere anche come l’erpice della colonia penale nella novella di Kafka, che incide con una scritta crudele la schiena dei condannati, e alla fine li uccide.

In tutto questo osserviamo anche un processo di standardizzazione totale. Contrariamente a quello che suggeriva l’ideologia del web al suo apparire, e cioè che le tecnologie informatiche avrebbero consentito una personalizzazione del lavoro superando il modello taylorista, quello che si è visto è di segno radicalmente antitetico, e va per l’appunto nel senso di una accresciuta standardizzazione. Tipicamente, gli addetti ai call center sono ora delle semplici protesi delle macchine, e devono, nella interazione umana con gli interlocutori, comportarsi in forma standardizzata e meccanica, cioè esattamente come degli automi. In particolare, la prescrizione protocollare di ripetere le frasi dei clienti è apertamente mutuata dalla strategia di conversazione di Eliza, il programma che una trentina di anni fa imitava il comportamento di un agente umano proprio riformulando con lievi variazioni gli imput degli interlocutori. In questo senso, dunque, si diventa macchine, ma anche in questo caso abbiamo a che fare con una rivelazione. Se l’addetto al call center può essere trasformato, accidentalmente, in macchina, è perché ogni uomo ha una essenza meccanica.

Se le cose stanno in questi termini, quello che si impone è una critica dell’ideologia. Registrazione, mobilitazione e standardizzazione sono, per così dire, i volti militari di Internet, quelli che vengono nascosti dalla rappresentazione friendly del navigare su Internet (segno di libertà), dell’amichevolezza dei social network, della cooperatività degli scambi. Ma c’è, in questa epoca di plastica e di silicio, anche un aspetto di ferro e di acciaio che viene sottovalutato, in parte perché non è palese, in parte per una scelta ideologica. Di sicuro, però, questi orizzonti fanno del web un potere molto più forte di quello delle vecchie multinazionali del petrolio. Questo è per l’appunto il volto oscuro del web, che si tratta di rendere palese. Bisogna, senza cedere alla minima forma di luddismo, prendere coscienza di queste circostanze, e a sorpresa i grandi pensatori del potere di Internet sono a mio parere tre figure che non lo hanno mai conosciuto, e forse nemmeno sospettato: Schmitt, che ha sottolineato come l’essenza del potere stia nella burocrazia (nella potenza documentale esplosa con la rete); Jünger, che ha teorizzato la mobilitazione totale e la militarizzazione come essenza del mondo moderno; e Foucault, che ha riconosciuto le trasformazioni microfisiche del potere nel passaggio dal moderno al postmoderno.

 

 

Rivelazione

 

Veniamo alla terza scansione: il significato della tecnica è la rivelazione. È vero che la tecnica ci mobilita, ossia al tempo stesso ci emancipa da certe costrizioni e ci inchioda a nuove soggezioni, come abbiamo appena visto. Ma è anche vero che in questa mobilitazione noi non siamo portati lontani da noi stessi, non andiamo incontro a una qualche aberrazione della natura umana. La tecnica c’è da sempre, la scrittura è tecnica per eccellenza, e noi siamo diventati quello che siamo diventati, con anima, amici e tutto il resto, proprio grazie a quella tecnologia, altrimenti saremmo ancora impegnati a spulciarci a vicenda in una caverna (con quella che, dopotutto, è ancora a tutti gli effetti una attività tecnica). Ecco perché ciò che avviene attraverso la tecnica è una vera e propria rivelazione: ciò che si oggettiva nelle protesi è la natura umana, nei nostri attrezzi noi possiamo sempre specchiarci e dirci “Questo sei tu”. Qui la la tecnica non è semplicemente un potenziamento della natura. È la manifestazione dell’essenza della cultura e di quella parte così cruciale della cultura che chiamiamo “coscienza”.

Se mai avessimo avuto bisogno di una prova del fatto che l’uomo è un animale sociale, lo sviluppo dei sistemi di telecomunicazione e di registrazione negli ultimi anni (uno sviluppo che ovviamente non ha precedenti nella storia del mondo) dovrebbe aver tolto qualsiasi dubbio in proposito. L’iPad, gli smartphone, il web, ossia le tabulae esterne, i doppi di quella tabula interna che è la nostra mente, stanno riducendo il numero dei cuori solitari. Questo è un punto che merita riflessione, perché indica una trasformazione piena di conseguenze. Girando online ho trovato una tesina di maturità del 2009-2010 intitolata La solitudine dell’uomo moderno. È un ottimo lavoro svolto dallo studente di un istituto tecnico industriale di indirizzo di elettrotecnica e automazione, e si divide in due parti. La prima affronta il tema della solitudine nell’arte (Van Gogh, De Chirico, Munch) e nella letteratura (Quasimodo, Ungaretti e Pirandello). La seconda, specificamente tecnica, analizza un impianto elettropneumatico di foratura, e osserva che la solitudine dell’uomo contemporaneo è in buona parte ascrivibile al prevalere delle macchine. Vale la pena di ragionarci un poco. Anzitutto, non è un caso che si tratti di una tesi di maturità, cioè del risultato della scuola che, quando è davvero efficace, riesce a essere uno strumento di felice conservazione, perché la trasmissione culturale è anzitutto contatto con il passato. Ciò che oggi è il tema di una esercitazione scolastica, trenta o quarant’anni fa riempiva i cataloghi degli editori, che accoglievano pensosissimi saggi sull’alienazione, l’uomo a una sola dimensione, e appunto la solitudine dell’uomo moderno. Vale poi la pena di osservare che tanto i pittori quanto gli scrittori presi in esame sono nati nell’Ottocento, tranne Quasimodo, che è del 1901.

La seconda considerazione è che se invece di prendere in esame un impianto elettropneumatico di foratura il candidato avesse considerato un’altra macchina, per esempio uno smartphone, difficilmente avrebbe potuto parlare di solitudine. Oggi non siamo affatto soli. Il tassista, figura del solitario per eccellenza (ricordiamoci Taxi driver, il film con De Niro del 1976), è ora perennemente connesso con amici e parenti, e spesso non ci degna di uno sguardo. Questa connessione può avere esiti paradossali: a me è capitato qualche tempo fa di tenere un seminario in un monastero vicino a un eremo. Bene, gli eremiti avevano Internet, mentre al monastero non c’era campo, per cui la buona domanda era chiedersi chi fosse, nella fattispecie, l’autentico eremita. Perché, in effetti, un eremita che può accedere al web non è più davvero un eremita, proprio come un carcerato che potesse aggiornare il proprio profilo su Facebook, o girare su Second Life, non sarebbe più davvero un carcerato. Il problema, semmai, è un altro e diametralmente opposto, il fatto di non essere mai soli, di essere perennemente bersagliati da mail e da sms, e di aver la possibilità, che si trasforma drammaticamente in dovere, di comunicare con il mondo intero, adesso che non si frappongono problemi tecnici ed economici.

L’ovvia obiezione consiste nel sostenere che questi rapporti mediati tecnicamente non sono “autentici”. Ma io vorrei capire perché. Quando due persone camminano insieme per strada e uno dei due risponde al telefonino non c’è alcun serio motivo per sostenere che il rapporto autentico è quello della compresenza fisica e non quello della conversazione. Così come i coniugi annoiati davanti alla televisione (figura in via di sparizione, visto che ora magari si ritirano a chattare ognuno col suo computer) non sembrano necessariamente avere un rapporto più autentico e drammatico di quello di Werter o di Jacopo Ortis con le loro interlocutrici epistolari (in effetti, loro si servivano di tecnologie più antiche, che, per un effetto prospettico, naturalizziamo, e finiamo per considerare “più autentiche”). Tutti quei soldi e tutte quelle tecnologie sono spesi proprio per incrementare il nostro essere nel mondo e il nostro essere sociale, e se non ne fossimo soddisfatti potremmo benissimo piantarla lì. Quindi, che una comunicazione sia “autentica” o “inautentica” non dipende certo dal fatto che avvenga in presenza o per e.mail, sms, in un social network, per telefono o con una lettera d’altri tempi. Ognuno di questi rapporti ha indubbiamente delle specificità, ma nessuno di questi può essere definito a priori più “autentico” di altri.

Questa circostanza riguarda anche quella che, con espressione un po’ antiquata, potremmo chiamare “vita interiore”. A un certo punto, nelle Confessioni, Agostino si pone una domanda semplice e cruciale: “Perché mi confesso a Dio, che sa tutto?”. In effetti, confessarsi a un Onnisciente è una attività un po’ bizzarra, eppure lo sta facendo da un bel po’. Perché? Agostino ha una risposta bellissima: si confessa per fare la verità non solo nel suo cuore, ma anche con la penna, e di fronte a molti testimoni. Come se la verità – nella fattispecie, della vita e dei sentimenti – non esistesse se non venisse esposta e scritta, messa in piazza o almeno su una piazza virtuale. In effetti, è proprio così: quante volte ci chiariamo con noi stessi mettendo per iscritto il nostro stato d’animo, o almeno parlandone con altri. È questa la ragione profonda di tutte le confessioni sul web che ingorgano i social network e i blog? A mio parere, sì. Accanto alle esigenze propriamente sociali, di relazione e di contatto, i social network e i blog, le scritture che proliferano nel web rivestono una funzione di confessionale pubblico, spesso involontario e inconsapevole, perché gli scriventi non lo sanno affatto, pensano semplicemente di comunicare e di stabilire un rapporto sociale più o meno esteso, e invece si confessano. E sono confessioni parossistiche, se si considera che vengono dette cose estremamente private. Come è possibile che ci si lasci andare a una pratica così rischiosa? Il motivo è semplice, e, di nuovo, ce lo ha spiegato Agostino molto prima dei blog. La verità sarà anche un lampo, ma non esiste se non è registrata, espressa e trasmessa. Scrivendo la manifestiamo e la costruiamo, e insieme costruiamo noi stessi. E ogni scrittura è potenzialmente pubblica, compreso un foglio di carta nascosto in un cassetto. Tanto vale, allora, ricorrere direttamente al grande schermo del web, mettere in technicholor il proprio privato. E il motivo di fondo di questa esposizione (che sarebbe riduttivo e falso spiegare con l’esibizionismo) lo mostra bene nella poesia che guida il mio discorso: “Voi che nel cuore delle città parlate delle città senza cuore”, ammonisce Sereni, pensate “Cosa può essere un uomo in un paese, | sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante | e dopo | dentro una polvere di archivi | nulla nessuno in nessun luogo mai”.

 

 

Responsabilità

 

Veniamo alla quarta scansione, che riguarda le conseguenze della tecnica della scrittura e della tecnica come scrittura nella costituzione delle emozioni e della responsabilità morale. In effetti, queste prestazioni così umane e così impegnative sono spesso associate a una memoria tanto più potente quanto più meccanica, la “memoria involontaria” delle madeleines di Proust, e che del resto, anche a un livello più elevato, si appoggiano a iscrizioni, esattamente come i pensieri (vedi del resto la funzione modellizzante di romanzi, educazione, stili di vita: non esistono emozioni allo stato puro, tranne l’ansia). Esaminiamo dunque la questione dal punto di vista non solo sociale, ma morale. Perché, sempre d’accordo con l’idea di limitare la falsa distinzione tra autentico e inautentico (o meglio, di limitare ciò che rende falsa questa distinzione) vorrei mostrare la centralità della iscrizione e della registrazione nella costituzione della identità morale. La responsabilità, ecco quello che vorrei dire, trova nella registrazione la sua più potente condizione di possibilità.

In questo senso, l’Io, il soggetto puro della volontà, che Kant interpreta come un primitivo indipendente da qualunque determinazione empirica (cioè come un’anima nel senso cristiano del termine), come un homunculus che scalpita in noi, si presta piuttosto a venir descritto come una tabula su cui si iscrivono impressioni, ruoli e pensieri, e che proprio in forza di queste iscrizioni diviene capace di iniziativa morale. Agiamo per imitazione (l’“imitazione mentale” prodotta dall’attivazione dei neuroni specchio in fase di osservazione servirebbe innanzitutto per comprendere le intenzioni altrui e quindi, poi, anche per imitare il comportamento osservato.); questa imitazione si iscrive nelle nostre menti attraverso l’educazione e la cultura; e a questo punto diveniamo capaci di azioni morali. L’immagine della colomba che avverte l’aria come impaccio, ma che proprio dall’aria, dall’attrito del mondo, ricava la possibilità di volare, non vale solo nell’ambito della ragion pura, ma anzitutto in quello della ragion pratica e del mondo sociale. Proprio per questo, non abbiamo alcuna necessità di invocare un homunculus nella nostra testa. Basta una tabula su cui si depongono iscrizioni, registrazioni e imitazioni che, giunte a un certo grado di complessità, ci permettono di formulare dei significati, delle intenzioni, e tutto l’apparato complesso che chiamiamo “spirito” o “mente”.

La spontaneità e la creatività che avvertiamo in noi, il fatto di possedere dei contenuti mentali, delle idee, e di riferirci a qualcosa nel mondo, non sono prestazioni che contraddicano in qualche modo il fatto che l’origine di tutto questo va cercata in registrazioni e iscrizioni. Certo, noi sentiamo con molta vivezza di avere una vita mentale che è nostra, e in particolare una vita morale, in cui l’homunculus scalpita, lo spettro ci tormenta. Ora, questa vita e questo tormento sono autentici, il che però non esclude che all’origine dell’homunculus ci fosse una tabula, un sistema di iscrizioni e registrazioni, proprio come nulla toglie all’autenticità di un sentimento il fatto che sia espresso in un sonetto. Ecco che cosa ci insegna quello che per me è più che un esempio. Immaginiamo un vecchio telefono amnesico, in tempi pre-segreterie telefoniche e pre-telefonini. Squillava, noi non eravamo a casa, tornavamo e vivevamo felici e senza obblighi. Oggi non è più così. Ogni “chiamata non risposta” (così nel gergo) rimane registrata sul telefonino, e questa chiamata genera l’obbligo di rispondere, fa fremere il fantasma, suscita la fitta di rimorso che (recita il verso di Sereni che sta guidando queste considerazioni) è “quello che diciamo l’anima”.

Infatti si è spesso sostenuto che la tecnica de-responsabilizza, delegando alla macchina delle prerogative umane, e che in questo senso disumanizza. Io non sono convinto che sia così, in generale (non c’è niente di meno umano di un uomo privo di tecnica, ridotto a essere un bruto assillato da bisogni elementari cui non sa rispondere), e che non lo sia in particolare per quelle tecnologie della scrittura di cui l’iPad è per questo (brevissimo) momento il rappresentante emblematico. Proprio il fatto di registrare rende responsabili: una promessa fatta tra amnesici non sarebbe una promessa, sarebbero parole al vento. Per questo il mondo si è riempito di carta, di archivi, di registri. Ora, l’iPad, i computer e i telefonini sono un enorme potenziamento degli archivi, e in questa misura aumentano enormemente la responsabilità, che è anzitutto obbligo di rispondere. Il punto è semplice: i vecchi telefoni fissi, localizzati e senza memoria, potevano squillare per giorni interi, se non eravamo nei dintorni non avevamo obblighi. Mentre se spegniamo o silenziamo il telefonino per un’ora quando lo riapriamo troviamo montagne di “chiamate non risposte”, di sms e di e-mail, e questo suscita una responsabilità e una angoscia. Si dirà che questa responsabilità appare poco elevata, ma non è vero: si pensi al testo del Dies irae: “Liber scriptus proferetur, | in quo totum continetur, | unde mundus judicetur”: “Verrà aperto il libro, | nel quale tutto è contenuto, | in base al quale il mondo sarà giudicato.”

La responsabilità morale, nel suo nocciolo, è proprio questo, iscrizione, registrazione, e l’onniscienza e onnipotenza divina si rappresentano come il possesso di un libro in cui tutto è scritto, nulla è nascosto o dimenticato. In un senso, dunque, se la comunicazione deresponsabilizza, come tentavano di sostenere i gerarchi nazisti a Norimberga cercando di mettere tutto in capo a Hitler, la registrazione responsabilizza, come dimostrano tutte le cronache dei nostri tempi. Così la responsabilità del rispondere (telefono, mail, ecc.) non è che il primo scalino – diciamo, quello di cui facciamo esperienza nella quotidianità ordinaria – di responsabilità ben maggiori che però hanno il medesimo fondamento documentale, dalla richiesta di presentarci a ritirare un pacco all’ufficio postale alla convocazione a giudizio e di lì ascendendo sino al messaggio dell’imperatore, che è per l’appunto la forma in cui Kafka ha reso il senso ultimo della responsabilità morale. Siamo, letteralmente, al detto di Anassimandro. “Là da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse debbono infatti fare ammenda ed essere giudicate per la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo.”. La giustizia ha molto a che fare con la registrazione, ma è così anche per l’etica, o almeno un suo elemento centrale, la responsabilità.

Emmanuel Lévinas, un grande filosofo francese, è morto nel 1995. Aveva novant’anni e molto probabilmente non aveva mai usato un telefonino. Mi chiedo se oggi non rivedrebbe la sua teoria, basata sull’idea che la fonte originaria della responsabilità morale sia trovarci di fronte il volto di un altro essere umano. E se non considererebbe che oggi il massimo della responsabilità si nasconde proprio nella “chiamata non risposta”, nella mail in giacenza, nell’sms inevaso che staziona nel nostro telefonino. Tanto è vero che, facciamoci caso, almeno nelle e-mail, ogni tanto ci sono dei messaggi “generati automaticamente” che si prendono la briga di precisarci che “non richiedono risposta”, come per sollevarci, caritatevolmente, dal peso della responsabilità. L’Altro, ecco quello che vorrei far notare con queste considerazioni, nell’epoca di Internet esiste eccome. Anzi, esiste molto più che in qualunque altra epoca. Si dirà che si tratta di un fantasma, appunto perché è senza corpo, ma non sono certo che questa sia davvero una radicale amputazione della sua alterità. Chi è più ossessionante degli spettri? E quanti spettri ci girano intorno in ogni istante della nostra vita, oggi? Sicuramente molto di più che all’epoca della televisione, che ci puntava senza vederci e senza chiederci risposta. Ecco quello che potrebbe forse dirci oggi un Lévinas col telefonino: la responsabilità – il fondamento della morale – appartiene agli spettri, che producono l’obbligo di rispondere, e il rimorso, se non riusciamo a farlo, anche più del volto di chi ci sta di fronte. (Fermo restando che l’alterità può irrompere inaspettata, lo choc, la morte, l’assenza di campo, la batteria che si scarica, lo hard disk che si spezza…).

E non è affatto un semplice discorso di anime belle. Attraverso queste interazioni produciamo atti che hanno senso proprio perché iscritti, e che una volta iscritti acquisiscono il potere che sappiamo, dalle firme che decidono la guerra o la pace, ai refusi che causano crolli in borsa. Una seduta di borsa senza listini, un matrimonio senza registri, una compravendita senza contratto, un tribunale senza sentenza sarebbero davvero degli esercizi frivoli, e se aveste avuto la certezza di dimenticare tutto quello che state leggendo dubito che avreste incominciato a leggere queste righe. Da quando qualcuno lasciò l’impronta di una mano sulle pareti di una caverna, il nostro stare insieme come esseri umani non prescinde dalle iscrizioni.Per questo la virtuale coniugazione di “I Pad” e di “You Tube” si completa con la prima persona plurale “We.doc”: siamo essenzialmente ciò che i nostri documenti dicono di noi, ed è per questo che l’estensione “.doc” ha invaso la nostra vita con tutta questa forza.