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Derrida e il suo doppio

 

(vedi Presenti a se stessi? di Jacques Derrida in questo numero di Kainos)

 

 

 

 

Nelle pagine che presentiamo, tratte dal libro Tourner les mots. Au bord d’un film1, Derrida si produce in una fra le forme più originali della sua scrittura, cioè l’auto-commento di un’esperienza ‘personale’, in questo caso quella che lo vide coinvolto come attore-di-se-stesso nel film del 1999 di Safaa Fathy: D’ailleurs, Derrida2.

Nel’ film Derrida si racconta, si ex-pone al pubblico, performativamente si presenta e presenta segmenti della sua filosofia. Esperienza dunque critica, se non eccessiva – eccesso di presenza – per colui che ha sempre sospettato della possibilità di una presenza piena e viva, live: all’origine vi è una registrazione, una distanza.

Come in una fenomenologia dell’auto-visione, densamente mentale, queste pagine sono anche una meta-riflessione filosofica sul sé: io vedo un oggetto, che è il mio io registrato (già costruito artisticamente e tecnologicamente), che è anche il soggetto e insieme la sua finzione, e così via all’infinito.

La domanda che sottotraccia attraversa questa fenomenologia dell’auto-visione, tuttavia, è più generale: dove essa ha luogo? Dove prende tempo? Qual è il valore filosofico di questa ulteriore, inattesa declinazione del concetto di presenza impossibile ‘nel’ pensarsi? La questione di fondo è quella di un’ambiguità fra attività e passività.

Alla volontà di azione, all’attività (actor, actus, agere: etimo comune) si intreccia l’essere-agiti, il lasciar-si sorprendere dall’altro. L’altro va inteso qui, precisamente, come indice di tutto ciò su cui non ho controllo (regia, telecamere, set, apparato tecnico; l'imprevisto, l’improvvisazione, il guasto tecnico; gli spazi e i tempi della produzione del film, la sua economia e perfino il mercato), e che etero-dirige la mia rappresentazione di me stesso, scrivendola dall’esterno. L’attore accetta una forma di ipnosi volontaria, paradossale automatismo che permette la ventriloquia, cioè il lasciar parlare un altro al mio posto, come Derrida diceva già in Ghost Dance3, primo film cui partecipò, nel 1983, nel ruolo di se stesso. Derrida, dunque, fa ciò che non crede di poter fare, «passivamente prestato all’Attore, all’indolente iperattività della sua interpretazione»4.

Fra me e l’Attore c’è uno strano scarto, attestabile, ma non spiegabile: un divorzio fra me e me, fra me e i miei ruoli, le mie parti, fra me e ciò che resta (di me): auto-residuo, dopo il film. L’Attore, che per definizione non può che mancarmi, cerca una ‘propria’ autenticità ri-producendo questi divorzi che scrive Derrida, sorvegliando minuziosamente la scrittura con il virgolettato derivano da fuori dal film. Da dove? Altrove? Forse in ‘me’, ‘nell’esistenza’ o nella ‘mia-vita’, cioè qualcosa che non esiste, se non a partire da queste lacerazioni. Ciascuno è sin dall’origine attore di se stesso. Forse è ancora di più: un teatro, vale a dire un dispositivo con l’attore dentro, con le sue macchine, i suoi retro-scena, i suoi registi.

E poi si mente a se stessi, in un teatro interiore. Io sono anche i miei divorzi unilaterali, l’auto-tradimento, l’Atto più invisibilmente doloroso. Io sono anche questo.

Queste pagine, particolarissime, fra straniamento teoretico e pathos esistenziale, ci restituiscono un’atmosfera claustrofobica, da stanza degli specchi popolata da auto-visioni, auto-riflessioni, incubi. In questa stanza-teatro il tema dello spettro ritorna, e infesta l’io nel suo costituirsi psichico. Io mi colgo come immagine riflessa, cioè spettrale, nella misura in cui – nella grammatica derridiana – lo spettro è tanto effetto di visione, quanto desiderio-timore della visione stessa e, insieme, ambiguità (né corpo, né spirito), revenant che, tuttavia, era già qui, ‘in’ me. Si tratterebbe, quindi, di un’hantologie dell’ego: innanzitutto, prima di ogni movimento ontologico, l’io è spettro di sé.

Forse non a caso questa stanza degli specchi ne richiama un’altra in cui Derrida era già entrato, molti anni prima: la stanza di Cartesio nella I Meditazione. Teatrale e mentale, intensamente abitata da illusioni spettrali e inganni, sfiorata dalla follia, essa è il luogo di una claustrofobia insopportabile per l’ego cartesiano, che per essere deve innanzitutto evaderne. Ma l’‘altro’ della Ragione, pensa Derrida, in realtà le sta sempre accanto – a partire dalle ambiguità della visione mentale – essendone lo spettro costitutivo: «io non filosofo se non nel terrore, ma nel terrore confessato di essere folle»5.

Tuttavia se si vuole cogliere la portata di queste pagine, va detto che la natura di quel residuo non-filosofico (la follia, il sogno, il non-senso) che Derrida tentava, alla sua maniera, di reintegrare nel filosofico, non era così differente dalla natura psichica degli oggetti che si agitano nella drammaturgia cartesiana del dubbio iperbolico. Forse, non come effetto ma come intuizione, a questo non sfuggiva neppure l’écriture nella a di différance.

Rispetto a quelle pagine – distanti oramai decenni – queste presentano uno scarto, una mutazione sottile, non nella funzione ma nella complessità elementale, cioè nella physis, del residuo che minaccia il filosofico. In effetti, in alcune parti del discorso di Derrida entra concretamente un elemento ‘altro’, qualcosa di realmente imprevisto ed esterno ad ogni finzione psichica. Altre persone ‘in carne e ossa’, dai microfonisti al regista: agenti incontrollabili (non alter ego proiettivi). Altri generi di scrittura: il montaggio, le inquadrature, la scrittura del film o anche il palinsesto di un’intervista che mi sorprende sospingendomi peritestualmente dove non desidero andare. Altri registri – le musiche, le immagini – disomogenei al logos, ma che co-scrivono una ‘mia’ immagine, un ‘mio’ pensiero’, una ‘mia presenza’.

L’impensato che entra nel ‘mio’ discorso è dunque eterogeneo rispetto all’eterogeneo pensato. Inoltre esso è composito, ma agisce in un senso unitario: proprio come in un film, o in un’intervista, le tre dimensioni fondamentali di questo residuo impensato, cioè quella antropologica, quella estetica, e quella tecnologica, lavorano insieme, e insieme mi vengono incontro.

Il punto nodale non è quello di certificare questa situazione unilateralmente, ad esempio dal lato di una Gelassenheit del pensiero, il quale totalmente si elargisce alla tecnologia, all’estetica o all’antropologia dell’altro. Il punto è capire che, in primo luogo, questo residuo ha una densità ambigua: è materiale-storico (è anzi il portato della storia nel filosofico), ma anche immediatamente morfo-logico. In secondo luogo che esso, poiché riconfigura il centro logico della filosofia, non può più venirne ignorato. E posto che la filosofia non può non incontrare il residuo, ne deriva una specifica tensione, che si manifesta come ambiguità fra attività e passività, nel filosofo.

Derrida, in queste pagine come altrove, si mostra, infatti, consapevole dei rischi che corre il ‘suo’ discorso filosofico ex-ponendosi all’eterogeneo. In quei testi-esperienze ibridi (come interviste, videointerviste e, a fortiori, docu-films) non ha potere integrale sul suo discorso. Eppure, e questo è il gesto da rimarcare, li lascia essere. Li autorizza, esautorando-si. Si con-cede a queste scritture, come quando concede interviste, con una frequenza crescente negli anni. Cede, quindi, una quota di sé e, de-singolarizzandosi, si lascia sovrascrivere. Ma tenta anche, percependo questa tensione come inevitabile, di gestirla, o, quantomeno, di predisporvisi.

Lateralmente, ciò che affiora in queste pagine è quindi un nuovo modo di esperire se stesso, vivendosi entro tale tensione contraddittoria fra attività e passività, fra presentarsi e lasciarsi attraversare. Una dimensione cogito-morfo-logica in cui la soggettività non è evanescenza, ma un primo inizio di tensione produttiva fra trattenere e lasciare.

Anche il suo corpus muta sottilmente, cancellandosi i bordi delle distinzioni bibliografiche fra ‘scritti principali’ e interviste, film e varia testualità. Il corpus, in alcuni lembi, diviene inter-mediale: si estroflette. Dunque il concetto generale di corpus, con quello di stabilità dello scritto-oggetto, entra in crisi: che cos’è, oggi, la presenza di un corpus, la presenza della totalità delle mie tracce, dei miei resti di scrittura? Dove ha luogo? E dove sono io rispetto ad esso?

Occorre iniziare forse a ripensare, entro questa tensione che scompagina la presenza, il nostro rapporto con le auto-immagini, con le registrazioni di sé, con le nostre tracce scritte, le quali nel loro complesso non stabilizzano più un corpus, ma sono già auto-produzione di un’estroflessione.

Se da un lato io sono il regista delle mie tracce scritte, e mi produco continuamente entro un’orchestrazione dei miei resti di scrittura (scritti, immagini, blogs, video, audio); dall’altra, ogni volta che ciò accade, l’eterogeneo, a mia insaputa, si intreccia con questa scrittura di sé, e a sua volta ne riorganizza i tempi e le forme. Per esempio: in che modo e sino a che punto la com-presenza di una webcam integrata (punctum caecum e occhio della visione) con schermo (opacità alla visione, che la rende possibile) e tastiera ‘scrivente’ muta le strutture di fondo del mio pensiero su me stesso, intrecciandole con quelle del vedermi e dello scrivermi? L’ibrido scrittura-visione-pensiero sembra porsi in opera negli autobiografismi sul Web 2.0, come negli a-social network, in cui io mi scrivo come un attore, eterodiretto dai meccanismi delle attese cui mi assoggetto. L’automatismo e le ipnosi dell’on-line lavorano, e mi lavorano, intrecciate all’eterogeneo, cioè alle intromissioni esterne che già preformano la mia immagine di me. Mutuando da Žižek: l’interattività si rivela, in realtà, come interpassività6.

Questi esempi, apparentemente lontani o marginali, mostrano possibilità già ‘presenti’ qui, spettralmente accanto alla filosofia oggi, for the time being.

Muta il modo in cui io mi penso, ma anche il processo generale grazie al quale il pensiero stesso va strutturandosi, attraversato dalla eterogeneità del morfo-logico. Forse le pagine derridiane, nel loro senso più inconfessato, aprono a questi scenari, come all’idea, per esempio, che un filosofo – anche, e soprattutto, se non lo ‘sa’ – scriva la filosofia accettando quote di automatismo e di eterogeneità, lasciandosi sorprendere.

 

Note

1 J. Derrida e S. Fathy, Tourner les mots. Au bord d’un film, Galilée/Arte Éditions, Paris 2000.

2 S. Fathy, D’ailleur, Derrida, Gloria Film Production/La Sept Arte – France 1999.

3 Cfr. K. McMullen, Ghost Dance, Looseyard for Channel 4 film, Great Britain 1983.

4 J. Derrida, Tourner les mots, op. cit., p. 76.

5 J. Derrida, Cogito et histoire de la folie, in Id., L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, tr. it. G. Pozzi, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 19902, p. 78.

6 S. Žižek, “The Interpassive Subject”, in Traverses, 3, Paris 1998.